Testa di bambino, Parmigianino, Museo del Louvre

Arriva il buio

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Per realizzare un film come La voce di Hind Rajab ci vuole una certa dose di coraggio. E il coraggio nel cinema confina spesso con la spregiudicatezza, la spregiudicatezza con il cinismo. Difficile capire se le intenzioni recondite dalla regista tunisina Kaouther ben Hania siano da collocare più vicino al lato del coraggio o a quello del cinismo.

Dubbi simili li sollevano anche altri suoi film che attraversano con molta disinvoltura il limite tra finzione e realtà, tra morale ed estetica: come Le Challat de Tunis, dove “la lametta” del titolo è quella di un misterioso censore che nel 2003 percorreva le strade di Tunisi per sfregiare le natiche delle donne vestite troppo disinvoltamente, vicenda raccontata da ben Hania in forma documentaria, intervistando vittime e spettatori, ma anche inventandosi cinematograficamente un colpevole che in realtà non fu mai trovato; o come Quattro figlie, il suo film più bello, nel quale ha chiesto a tre delle protagoniste reali, coadiuvate da alcune controfigure professioniste, di rimettere in scena la drammatica vicenda familiare che avevano vissuto.

Quello che è indubbio è l’esito spesso efficace e intelligente delle sue opere. Con La voce di Hind Rajab Kaouther ben Hania realizza un film capace di sconcertare e al tempo stesso far riflettere, due caratteristiche che difficilmente viaggiano di pari passo.

Inutile girarci intorno: l’importanza del film sta tutta nell’impressionante documento intorno a cui la regista tunisina costruisce la sua opera: gli audio originali delle drammatiche conversazioni telefoniche tra gli operatori della Mezzaluna Rossa palestinese e una bambina di sei anni, Hind Rajab, soprannominata Hannud, imprigionata tra le lamiere di una macchina crivellata di colpi durante l’evacuazione forzata di alcuni quartieri occidentali di Gaza nel pomeriggio del 29 gennaio 2024.

Intorno a Hind, i cadaveri dei familiari; di fronte, il carrarmato dell’esercito israeliano da cui probabilmente sono partite le raffiche che hanno ucciso gli zii e quattro cuginetti seduti al suo fianco. Con il telefono dello zio, rannicchiata sotto i sedili posteriori dell’auto, riesce a entrare in contatto con i paramedici della Mezzaluna Rossa, che per tre lunghissime ore tentano di coordinare il salvataggio e di impedire che la disperazione la spinga a fare mosse inconsulte.

Il film è costruito intorno a due assi portanti che intrecciandosi tra loro rompono, come si diceva, il confine tra realtà e finzione: da un lato l’interminabile agonia della piccola Hind, descritta solo attraverso gli audio originali delle telefonate, dall’altro la ricostruzione verosimile di quanto accaduto nel centro operativo della Mezzaluna Rossa durante quelle ore concitate.

Gli audio delle telefonate, che nella realtà durano 70 minuti e coprono un arco di tre ore, dalle 14.40 alle 18 circa, occupano quasi tutta la durata del film. La parte di finzione, sceneggiata dopo aver a lungo intervistato i volontari in servizio quel giorno, mette in scena, con attori professionisti, i loro pensieri, i loro crolli emotivi, le loro speranze, le loro strategie di intervento durante quelle ore drammatiche e concitate.

Uno dei meriti del film è di impressionare senza commuovere. Nonostante quello straziante venite a prendermi, arriva il buio, che non ti esce più dalle orecchie, non si piange nel vedere (e sentire) La voce di Hind Rajab, tranne, forse, nel momento in cui la piccola recita insieme a Rana, una dei volontari che la intrattiene al telefono, i versetti iniziali del Corano: Bismillāhi r-Raḥmāni r-Raḥīm (Nel nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso). Ma è un pianto per così dire religioso, mosso dalla manifestazione di impotenza di un Dio che nonostante la sua misericordia compassionevole non può fare nulla per salvare Hind.

Non si piange anche in ragione della recitazione didascalica e un po’ enfatica degli attori, che per certi versi ricorda il “teatro didattico” di Brecht, per il quale compito della rappresentazione non era tanto stimolare l’immedesimazione emotiva dello spettatore, ma spingerlo a formarsi una propria opinione su quanto accadeva in scena.

I protagonisti della parte di finzione sembrano rappresentare più dei “tipi” che dei personaggi a tutto tondo: Omar, il primo a parlare con Hind, che insiste per un intervento immediato, senza tentennamenti e lungaggini burocratiche; Mahdi, il coordinatore, che al contrario si mantiene fedele alle procedure e cerca in tutti i modi di mediare con le autorità, palestinesi e israeliane, per garantire all’ambulanza un percorso sicuro; infine Rana, la volontaria vestita di bianco, figura di sogno, impegnata a confortare la piccola e a impedirle di cadere nella disperazione. Ma la vicenda di Hind Rajab, cellula autentica del male contemporaneo incastonata in un film di finzione, scolora inevitabilmente in una favola nera: nessuna delle opzioni politiche impersonate dagli attori –intervento diretto, mediazione istituzionale, empatia umana – sembra essere efficace. Il buio era già arrivato.

Il film è nelle sale in questi giorni. Il consiglio è di andare a vederlo, farsi un’idea del valore dell’operazione, discuterne con qualche amico o amica.

Luigi Monti

Luigi Monti

È socio fondatore dell'associazione Giunchiglia-11 Aps, insegna italiano alla Scuola Frisoun di Nonantola, è redattore di "Touki Bouki" e della rivista "Gli asini".

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