Storia di un amore

14 Agosto 2022
I "bassi" del Tursèin, 21 aprile 2015

Con le date sono una frana, ma questa non vuole essere una ricostruzione storica del coro “Al Tursèin” quanto piuttosto il racconto personale di un’esperienza di vita fondamentale, ovvero cantare insieme ad altre persone.
A trasmettermi la passione per il canto è stata mia madre. Mi ricordo che quando faceva i fatti, quando stirava o tirava la sfoglia cantava sempre. Allora non c’erano la tv e i giornali e le canzoni raccontavano quello che succedeva in Italia in quegli anni, avvenimenti storici, fenomeni di costume o fatti di cronaca. Io non ho fatto in tempo a vederli, ma penso siano stati i cantori ambulanti, i cantastorie, a costruire quel repertorio di canti popolari. Il più delle volte erano tragedie o storie d’amore. Le storie d’amore mia madre le pitturava un po’ perché non voleva che imparassi cose sconce, ma con le storie tragiche invece ci calcava la mano e io immancabilmente su certi passaggi o certe note scoppiavo a piangere.
Una di quelle canzoni l’ho insegnata anche al coro, si intitola “La Lena”. Lena è una giovane madre che sul letto di morte fa promettere al marito, Carlein, di prendersi cura dei figli, ancora piccoli. Ma “dopo tre mesi che Lena fu morta / Carlein in campagna riprese muier / Prese una donna sì tanto cattiva / ma tanto cattiva che non si può dir / Al più piccino gli dava le botte / Al più grandino gli usava il baston”.
Un giorno i bambini vanno sulla tomba della madre e le dicono: mamma Lena, torna a casa e dacci del pane. Una richiesta tanto struggente che di notte la Lena compare in spirito al marito e lo convince a lasciare la matrigna crudele. [QUI una versione grottesca de “La Lena” a firma di Fabio Bonvicini e Gianluca Magnani]
A me son sempre piaciute quelle storie lì. In mezzo alla gente cerco di trattenermi, ma quando le canto da solo, sarà perché mi sembra di sentire ancora la voce di mia madre, ogni tanto mi scappa da piangere. Lei poi le cantava con un tono che mirava proprio a strappare le lacrime, sembrava perfino un po’ sadica. Secondo me lo faceva per insegnarmi le cose che riteneva importanti. Ero solo un bambino, però certe parole e certe note mi sono rimaste impresse e penso che in parte abbiano formato il mio carattere.
Le altre canzoni nascevano per lo più come canti di lavoro. Quando in estate le ragazze andavano alla monda – e mia madre è stata mondina per diversi anni – passavano il tempo cantando. Si mettevano in fila per pulire un tratto di risaia e mentre toglievano le erbacce, un po’ per non pensare, un po’ per darsi il ritmo, improvvisavano stornelli o cantavano storie d’amore e di tradimenti. E lo stesso facevano quand i’andeven alla foja, quando andavano a raccogliere le foglie dell’olmo o del gelso, alla fine dell’estate, da dar da mangiare alle bestie, e si passavano voce da una pianta all’altra. In risaia o sui rami degli alberi venivano fuori dei cori spontanei.

25 aprile 2016, Villa Sorra, Castelfranco Emilia

Anche mio padre cantava. Mi diceva sempre quello che poi un giorno ho sentito anche in Novecento, il film di Bertolucci: se canti ti passa la fame. Mio padre in realtà non diceva “la fame” – io non mi ricordo di aver mai patito la fame, al massimo voglia di roba buona. Lui diceva: se canti ti passa la stanchezza. E di stanchezza mio padre ne sapeva qualcosa. Quando inforcava la bicicletta, di giorno o di notte, e da Redù si faceva dieci chilometri per andare a lavorare in fonderia a Modena, cantava sempre.
Negli anni mi è capitato di sentire un po’ di storie sull’origine della musica nera, come il gospel o il blues, e ho subito pensato che anche i nostri canti erano nati un po’ in quel modo lì: canti di lavoro, di fatica, di fame, di schiavitù. Medicine per l’anima quando il corpo è in prigione.
Ho iniziato a cantare nel coro di Nonantola all’inizio degli anni ’60 con il maestro Rossi. Era uno che suonava la fisarmonica e aveva la passione per la musica. Frequentando la Pieve, aveva chiesto in giro chi fosse interessato a cantare insieme. Il coro “Al Tursèin” – che allora si chiamava “della biblioteca” – è nato così.
Dopo qualche anno, quando un primo nucleo del coro si era costituito, siamo passati sotto Giambattista Moreali. Suo padre, il vecchio Moreali, quello a cui hanno dedicato un albero dei Giusti a Gerusalemme per il ruolo di primo piano nella vicenda dei ragazzi di Villa Emma, è sempre stato un patito di musica. Suo figlio ci aveva messo a disposizione la sala di casa sua dove andavamo a provare. Cantavamo più che altro canzoni emiliano-romagnole, quasi tutte canzoni “d’autore” o perfino “colte”, come “Suona la tromba”, di Giuseppe Verdi. Mi ricordo anche un canto su Nonantola, “Nunantla vecia vecia”, che credo avesse scritto e musicato Giuseppe Moreali stesso. Fabio non me lo vuole far cantare, ma io arriverò a metterlo sotto prima o poi. Un inno d’amore a Nonantola.
In questa fase, siamo verso la fine degli anni ’80, il coro si scioglie per un certo periodo e se non fosse stato per Gianna Ronchetti, che aveva bisogno di una colonna sonora per il suo Del Panaro l’acqua fluente, forse non ci saremmo rimessi a cantare con il maestro Tiziano Vincenzi.
Dopo Vincenzi subentrò Giorgio Carletti, che è stato il più “tecnico” dei nostri maestri. Aveva diretto altri cori e curava molto i dettagli. Fu lui a introdurre i bassi e a mettere su le quattro voci. Poi, nel 2006, con il sostegno dell’associazione ricreativa “La clessidra”, è arrivato Fabio Bonvicini il nostro ultimo maestro. A lui interessava tirare fuori i canti e le sonorità della nostra tradizione. Tanto basta che all’inizio andava a casa dei coristi a chiedere che canzoni cantassero da ragazzi o che canzoni gli cantassero le madri. E mentre gli facevamo sentire qualche pezzo, lui prendeva appunti e registrava. Alcuni di questi canti li ha arrangiati e inseriti nel repertorio del Tursèin. Di tutti i maestri Fabio è quello che si è messo di più nei panni dei coristi. Cercava di tirar fuori la caratteristica peculiare della tua voce e l’identità più vitale e autentica del coro.

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“Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà ed un pensiero ribelle in còr ci sta!”

Adesso che con Fabio abbiamo interrotto a causa della pandemia, seguo io il coro. La musica non l’ho studiata, ma l’orecchio ce l’ho. In queste settimane ad esempio ho messo sotto un canto nuovo, un canto che racconta l’immigrazione italiana. Si intitola “Io parto per l’America [QUI è possibile ascoltare una delle tante versioni esistenti].
I coristi, soprattutto le donne, me lo stanno contestando perché a un certo punto il giovane protagonista, dice così:

Io parto Per l’America
sul lungo bastimento
parto col cuor contento
di non vederti più

Perché dovrebbe avere il cuor contento di non vedere più la sua bella? C’ho pensato un po’ su e alla fine credo che sia uno dei possibili atteggiamenti di chi emigra: quando uno lascia il suo paese deve cercare in tutti i modi di staccare, di tagliare i ponti per soffrire meno. C’è chi lascia i propri affetti e con la testa e il cuore rimane sempre a casa e chi al contrario trova un pretesto per dire no, anche se ti voglio ancora bene an t’vòi piò vèder. Anche se per conto mio rimane lo stesso una grande sofferenza.
Insomma, tra il coro di Rossi e quello di oggi c’è una sostanziale continuità. Sono cambiati i maestri, sono cambiati in parte i coristi, lo stile e il repertorio, ma l’obiettivo è sempre lo stesso: cantare e, cantando, stare bene. E magari far star bene chi ti ascolta. Da questo punto di vista devo dire che andare a cantare alle feste, nelle case protette o nelle comunità per disabili dà molta più soddisfazione che cantare tutti incravattati nelle rassegne corali.
Mi ricordo che un anno siamo andati alla “Casa del Sole”, un pensionato di Modena, e abbiamo cantato il nostro solito repertorio. Il giorno dopo sono ritornato per sistemare alcune formalità. C’era il titolare e gli ho chiesto com’eravamo andati. Simoni, mi fa, qua abbiamo degli ospiti che non parlano più da molti anni, ma le ragazze mi hanno detto che alcuni di loro ieri si sono messi a cantare insieme a voi. Ecco, secondo me il canto e la musica si muovono su piani che facciamo fatica a comprendere e che non sono solo quelli della coscienza e della ragione.
Non a caso ci sono alcuni canti che il coro canta con molta persuasione e le voci escono tutte molto piene. “A mezzanotte in punto”, ad esempio, che racconta la storia di una ragazza costretta a sposare un vecchio per l’eredità.

Una delle prime registrazioni di “A mezzanotte in punto”

O “Il giorno di tutti i santi”, la storia di un giovane che pur conoscendo i rischi della navigazione, prende il mare con una barchetta scalcagnata per inseguire l’amore. Canzoni come questa sono ispirate a fatti veri. Gente che emigrava oppure che tornava a casa e ci rimaneva a metà strada. Succede adesso e succedeva anche allora. Alla fine dell’Ottocento, durante una traversata transoceanica morì anche una mia prozia, o meglio, una bambina che sarebbe diventata mia prozia se non fosse morta prima che io nascessi. I miei nonni erano emigrati a San Paolo del Brasile ma a un certo punto tornarono a casa perché i figli crescendo avevano seri problemi di vista. E durante il viaggio di ritorno gli morì questa bimba di pochi anni che, come succedeva in quei casi, furono costretti a seppellire in mare.
Ci sono delle volte che la musica che esce dal coro è davvero perfetta. L’intonazione non c’entra, è qualcos’altro. La prima volta che ho provato questa sensazione è stato tanti anni fa, non me lo scorderò mai. Facevamo le prove in Perla Verde, nella sala di sopra. Io sono sempre stato puntuale perché al coro c’ho sempre tenuto molto. Una sera però faccio tardi al lavoro e quando arrivo sento che Moreali ha attaccato a provare “La fasulera”, un canto romagnolo. Io l’ho sempre cantata insieme agli altri, ma quella volta lì mi son messo ad ascoltarla, incantato. Mi son fermato in corridoio, nascosto dietro la porta, e mentre sentivo “La fasulera” cantata dal mio coro, diobono, ho pensato, ma che cosa bellissima.

Rino Simoni, in primo piano a sinistra

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