Circa vent’anni fa ho regalato un cane a mio padre, si chiamava Kuka, come il nome di una marca di caramelle tailandese. Era un carlino. In quel periodo mio padre mi diceva sempre: Nina, quand’è che ti sposi? Quand’è che fai un figlio? Dicendo così lui pensava chiaramente a un maschio.
Mio padre ha sempre desiderato un figlio maschio. Quando io e mia sorella eravamo già grandi, un giorno ha perfino detto a mia madre che lui andava in ospedale ad adottare un orfano. Aspetta che nasca tuo nipote, gli ha detto mia madre per farlo rinunciare.
E così un giorno, dopo l’ennesima volta che mi aveva detto che voleva un nipote, passando da uno dei più grandi mercati di Korat (1), ho visto un cucciolo molto carino che mi fissava negli occhi. La prima volta sono passata e ho tirato dritto. Ma la seconda volta, non ho resistito. E così, senza pensarci troppo, l’ho portato a casa.
Kuka era attaccatissimo a mio padre. Lo inseguiva ovunque andasse. Se mio padre usciva da casa, Kuka lo cercava continuamente, in bagno, in camera, dappertutto, sia in casa che in giardino.
Secondo me amava così tanto mio padre perché sentiva che anche mio padre lo amava. Tutti i venerdì ad esempio mio padre andava in macelleria a comprare un chilo di fegato per Kuka e se qualcuno apriva il frigo per mangiarlo, diceva: no, il fegato è per Kuka!
Quando mio padre andava a riposare al pomeriggio, Kuka dormiva sempre con lui, accucciato sopra i suoi piedi.
Kuka ha vissuto i primi tre mesi di vita con me, in città. Ma nonostante questo non mi voleva bene come a mio padre. C’è da dire che per due volte io gli ho fatto del male. Una volta gli ho comprato una maglia, ma era molto stretta e mentre provavo a infilargliela, gli ho tirato le zampe, che non si piegavano, fino a quando ha guaito ed è scappato via. Un’altra volta gli ho tagliato le unghie, ma devo aver sbagliato misura perché a un certo punto ha iniziato a sanguinare. Insomma, per un po’ quando mi vedeva, scappava via.
Durante la stagione della raccolta del riso, da novembre a febbraio, mio padre lavorava moltissimo, dava ordini agli operai, caricava il camion, si muoveva di qua e di là indaffarato e Kuka, nonostante il suo fisico non proprio da atleta, ce la metteva tutta per stargli dietro, fino a quando, esausto, si sdraiava all’ombra sotto un albero. E anche da lì continuava a seguirlo con lo sguardo. Poi se non lo vedeva per un po’, ricominciava a cercarlo.
Quando Kuka aveva il compito di sorvegliare qualcosa e mio padre lo incitava contro un cane o una gallina, lui partiva come un proiettile e a volte, in preda alla foga, inciampava e cominciava a rotolare, poi si alzava veloce, guardava mio padre con aria dispiaciuta e ripartiva subito dopo all’inseguimento.
Otto o nove anni fa Kuka è morto. Come tutti i carlini aveva dei problemi di respirazione. Faceva acqua nei polmoni. Adesso mio padre ha un nipote maschio di 11 anni che si chiama Brian. Kuka è sottoterra, dietro casa.
(1) Korat è il nome con cui è conosciuta la città di Niyom, Nakhon Ratchasima, che in thai significa “altopiano”, una grande città al centro della Thailandia.