Angelo e Angelica

20 Aprile 2022
"Harold e Maude" di Hal Ashby, 1971

Conoscemmo Angelo alla “Casa lavoro” di Saliceta San Giuliano, all’inizio degli anni ’70, durante una messa domenicale. Io, mio fratello Umberto e alcuni amici del “Gruppo Lavoratori” avevamo iniziato a frequentare le messe della “Casa lavoro” da uomini liberi, per intercessione di don Arrigo Mussini. 

La “Casa lavoro” di Saliceta era una struttura detentiva speciale: entrando i detenuti conoscevano il periodo minimo che avrebbero dovuto passare lì dentro – due anni – ma non quando ne sarebbero usciti. Potevano nel frattempo lavorare o fare attività cosiddette socialmente utili, ma se nell’arco di quel periodo non dimostravano di essere in grado di condurre una vita indipendente o se combinavano qualche guaio, il conteggio degli anni riprendeva da capo. 

Angelo Cannizzaro, sessantenne originario della Sicilia, rientrava in questa seconda casistica: rischiava di rimanere lì a vita perché varie volte durante una licenza premio o un permesso di lavoro aveva attaccato briga, non era rientrato all’ora stabilita o si era presentato alticcio. E ogni volta il conto dei giorni ricominciava da zero. Don Arrigo ci aveva fatto capire che soltanto l’amicizia e la fiducia di qualcuno avrebbero consentito ad Angelo di superare quel passaggio così complicato tra il dentro e il fuori. 

Io e mio fratello Umberto decidemmo di ospitare Angelo a casa nostra e di sostenerlo, per quanto ci era possibile, nei sei mesi che gli mancavano al raggiungimento della libertà definitiva. L’ultimo filo che lo legava al carcere era la firma che doveva fare tutte le mattine alla stazione dei carabinieri di Sassuolo.

Era strana la convivenza con questo vecchietto che parlava solo in siciliano stretto, ma dopo poco imparammo a capirci al di là delle parole. Per molto tempo cercammo di aiutarlo a trovare un’occupazione, ma, complici l’età e il dialetto, riuscimmo a trovare solo qualche lavoretto occasionale presso dei nostri amici. Ad esempio all’officina Cavani, che lo impegnò per alcune settimane e dove per la prima volta Angelo sperimentò la gratificazione di un lavoro remunerato. In questo modo perse, agli occhi del giudice, la sua pericolosità sociale e finì di saldare il debito che aveva nei confronti della giustizia.

Visse con noi altri quattro mesi ma senza trovare un’occupazione stabile. A un certo punto ci venne in mente di tentare con la ditta per la quale Angelo, ancora in carcere, aveva lavorato come assemblatore di componenti elettrici, la Ticino Interruttori Spa. Io, mio fratello e don Arrigo firmammo una lettera in cui “presentavamo” Angelo come lavoratore affidabile nella speranza che gli offrissero un posto. 

Una mattina Angelo arriva a casa nostra sventolando una lettera d’assunzione: era stato preso per lavorare nello stabilimento principale dell’azienda, a Bizzozero di Varese. Lo accompagnammo alla stazione, tutto vestito di nuovo, pronto a ricominciare una nuova vita.

Per molti mesi non abbiamo avuto sue notizie, solo qualche cartolina di tanto in tanto, poi per lungo tempo più nulla. Pensavamo di avere perso definitivamente i contatti quando una mattina, due anni dopo, sentiamo un clacson stridulo sotto casa, ci affacciamo alla finestra e vediamo Angelo che dal finestrino di un Apecar gesticola e saluta. Era arrivato direttamente da Varese e di fianco a lui, rincagnata nello stretto spazio dell’abitacolo, c’era una donna. 

Si chiamava Angelica. Fu lei a raccontarci che era stata una suora e che a settant’anni anni, approfittando delle cure termali prescritte dal medico, era “fuggita” dal convento dopo aver maturato l’idea di essere stata sfruttata dalla madre superiora per 45 anni come lavapiatti e donna delle pulizie. Non se l’era sentita di chiedere aiuto ai parenti pugliesi ed era stata accolta temporaneamente in casa di una filantropa di Varese. Ma non aveva idea di come trovare una casa e una sistemazione autonome. Forse è per questo che quel giorno Angelo, all’uscita dalla fabbrica, la trovò seduta su una panchina che piangeva. Non sapeva cosa fare, ma non voleva tornare in convento perché era consapevole che una volta dentro non avrebbe più avuto il coraggio di uscirne. Angelo le chiese se stesse bene, l’ascoltò, la consolò e soprattutto la capì. E in questo modo nacque la loro tardiva storia d’amore. 

Erano una bella coppia, si sostenevano l’un l’altro. Ci fecero visita diverse altre volte. Si trattenevano due o tre giorni nel fine settimana e poi ripartivano. Angelica amava fare delle passeggiate nelle stradine che da casa nostra portavano nei campi aperti della campagna circostante, conosceva bene alcune piante commestibili, come la cicoria selvatica, le radicelle, le pote o i cardi spinosi.

Una sera la vediamo tornare verso casa con un grosso mazzo di una pianta a noi sconosciuta. Le chiediamo cosa sia. “È rucola”, fa, “rucola selvatica”. A Modena in quegli anni la rucola non si trovava in commercio, un po’ come i pomodorini siciliani, o il cavolo nero, e anche noi non l’avevamo mai sentita nominare. “Cresceva anche nel nostro convento, ma la madre superiora mandava ogni giorno alcune delle sorelle più anziane a estirparla e a buttarla al di là delle mura”. Non bisognava mangiarla, ci spiegò Angelica, perché si diceva portasse desideri proibiti, forse a causa di quel pizzicorino che si sente in bocca quando è fresca.

Per qualche anno ancora Angelo e Angelica ci fecero visita a Sassuolo, sempre sul loro Apecar, per ripartire un paio di giorni dopo verso la Puglia, dove Angelica aveva ancora dei parenti, o per tornare a Varese. A un certo punto non abbiamo saputo più nulla. Io e mio fratello abbiamo tentato varie volte nel corso degli anni, attraverso l’anagrafe di Bizzozero, di rintracciare qualche indizio che ci consentisse di capire che fine avessero fatto, ma per questioni di privacy, così ci rispondevano tutte le volte le dipendenti comunali, non era possibile ottenere alcuna informazione. 

1 Comments Leave a Reply

  1. Grazie Claudio e Umberto della storia di Angelo e Angelica !
    Contiene gli elementi della favola e, dunque, chi la legge dovrebbe sentirsi ispirato a diventare umano e libero, se responsabile e solidale con gli altri.

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