I conti con il passato

28 Dicembre 2022
Opera dell'artista afghano Mohibullah Attaie. Fonte: thewire.in

Il ritorno al potere dei Talebani, avvenuto nell’estate del 2021, solleva due domande principali: è davvero finita la guerra? Quando è iniziata? Per rispondere alla prima domanda, occorre tentare di rispondere alla seconda. Siamo abituati a pensare che la guerra in Afghanistan sia iniziata nel 2001, quando il primo Emirato islamico – il governo dei Talebani istituito nel 1996 – è stato rovesciato militarmente con un intervento degli Stati Uniti. Un intervento voluto dall’allora presidente Usa, George Bush, in risposta agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 contro le Torri gemelle di New York e la sede del Pentagono, a Washington che hanno provocato più di tremila vittime civili. I Talebani non avevano responsabilità diretta di quegli attentati, ma era in Afghanistan che aveva trovato rifugio e ospitalità l’organizzazione che li aveva pianificati e realizzati: al-Qaeda. È stato così che, nell’inverno del 2001, il loro governo è stato smantellato, i Talebani sono stati catturati, uccisi, o sono scappati all’estero, trovando rifugio in particolare in Pakistan. Da allora, le cose nel Paese sono molto cambiate, soprattutto negli anni successivi. I Talebani, esclusi dal processo politico e diplomatico che ha dato vita al nuovo governo e alla Repubblica islamica, sono tornati a raggrupparsi e a condurre operazioni militari in Afghanistan, godendo di sostegni e di “santuari” in cui addestrarsi e organizzarsi, in Pakistan.

Il 2001 è quindi un anno importante, certo, ma a guardar bene non è il vero inizio della guerra in Afghanistan. D’altronde, gli “inizi” nella storia non sono mai veramente tali. Il conflitto militare è solo l’esito ultimo, più evidente, di dinamiche di natura diversa, più difficili da vedere: conta l’economia, conta la politica, conta la percezione delle popolazioni, conta il fatto di sentirsi esclusi o inclusi nel territorio in cui si vive. Insomma, contano tanti fattori. Le armi sono gli strumenti rumorosi di conflitti sotterranei, perlopiù silenziosi e precedenti. Anche nel caso dell’Afghanistan ci sono stati tanti conflitti sotterranei che hanno determinato l’inizio della guerra.

Volendo trovare un “inizio”, dovremmo cercarlo non nel 2001, ma, come dice Diana nella testimonianza raccolta nel numero di settembre di Touki Bouki, nel 1978. È nell’aprile di quell’anno infatti che è avvenuto un cambiamento epocale: il colpo di Stato che ha portato al rovesciamento della repubblica presidenziale di Mohammad Daud. In Afghanistan quel colpo di Stato, avvenuto il 27 aprile 1978, viene chiamato anche “Rivoluzione di Saur” (la rivoluzione di aprile), ed è stato condotto dal Partito democratico popolare dell’Afghanistan (Pdpa).

L’aprile 1978 è quindi la data che dobbiamo tenere a mente, se cerchiamo “un inizio” della lunga guerra in Afghanistan. Una data cruciale, anche perché legata a ciò che avviene meno di un anno e mezzo dopo: nel dicembre del 1979, le truppe sovietiche invadono il Paese. Ci rimarranno per dieci anni, ritirandosi soltanto nel 1989. In quei dieci anni, è in Pakistan che si organizzano i gruppi politico-militari della resistenza contro i sovietici. È in Pakistan che hanno sede i partiti dei mujahedin, i combattenti islamisti che riescono a liberare l’Afghanistan dall’occupazione russa.

1989, ritiro di truppe sovietiche dall’Afghanistan

A questa prima fase del conflitto segue, dal 1992 al 1996, la guerra tra i gruppi di mujahedin usciti vittoriosi ma divisi dalla resistenza. Sono anni di sofferenze enormi, anni di profonda insicurezza e instabilità. Qualcuno ritiene che questa fase sia stata una vera e propria “guerra civile”. Al di là delle definizioni, è importante una cosa: in quegli anni i leader politico-militari strumentalizzano le divisioni etnico-comunitarie tra pashtun, hazara, tagichi, uzbechi, turkmeni, etc, per reclutare, mobilitare. Loro si rafforzano, la popolazione ne esce più divisa. Quando alla metà degli anni Novanta i Talebani, dal sud dell’Afghanistan, conquistano progressivamente tutto il Paese, la popolazione finisce per vederli anche come garanti della sicurezza, dopo tanti anni di “guerra civile”. Nel 1996 instaurano l’Emirato islamico d’Afghanistan, un governo riconosciuto soltanto da Arabia saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. L’Emirato – come abbiamo visto – viene rovesciato militarmente nel 2001, inaugurando l’ultima fase del conflitto, segnato dall’opposizione armata dei Talebani al governo della Repubblica islamica sostenuto dagli Stati Uniti, dalla comunità internazionale e dai Paesi membri della Nato. Questa fase, l’ultima di una guerra che va avanti nel 1978/9, si è conclusa nell’agosto 2021, con il collasso della struttura istituzionale nata dopo il 2001, il ritiro delle truppe straniere, la restaurazione dell’Emirato dei Talebani.

I Talebani oggi sostengono che la guerra è finita, il Paese in pace e in sicurezza. Ma è davvero così? È la seconda domanda da cui siamo partiti: la violenza è senz’altro diminuita, ci sono molte meno vittime civili rispetto a prima, perché non si combatte più come prima: i Talebani hanno sconfitto i soldati stranieri e quelli del vecchio regime afghano, prendendo il controllo del territorio. Ma non c’è vera pace, non c’è vera sicurezza. Perché? Perché il loro governo non è inclusivo né pienamente rappresentativo, perché c’è apartheid di genere, perché il contratto sociale che offrono alla popolazione – sicurezza vs libertà personali – non funziona più, in Afghanistan. E perché ci sarebbe bisogno di un vero processo di riconciliazione: fare i conti con il passato. Con più di 40 anni di guerra, abusi, richieste di giustizia inevase. Un processo che i Talebani non possono né vogliono affrontare.

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