Il circo

Dal deserto del Sahara alla neve delle Alpi, dagli asini per la trebbiatura, ai cavalli di un circo austriaco. Un'incredibile storia di animali e immigrazione.
10 minuti di lettura
Inizia

Non era la prima volta che lavoravo con gli animali. In Marocco, quando ero ragazzino, mi occupavo di montoni, pecore e capre. Partivo alla mattina e tornavo alla sera. Andare alla ricerca di zone erbose non era semplice, perché Tata, la mia città, è alle porte del Sahara.

Avevo confidenza anche con gli asini, che usavo come mezzi di trasporto e come forza lavoro al momento della mietitura. Dal campo trasportavamo il grano in uno spiazzo di cemento che aveva un palo al centro. Al palo era collegato un attrezzo che serviva per una prima trebbiatura. Io seguivo l’asino col bastone e lui, camminando intorno al palo, azionava questo attrezzo. L’asino era dei vicini, che lo mettevano a disposizione della comunità. A me piaceva molto camminare dietro all’asino e lavorare il grano appena raccolto. Finita quest’operazione, bisognava aspettare che il vento diventasse una brezza leggera. Allora con il forcone lanciavo in aria il grano e se avevo scelto la brezza di intensità giusta, i chicchi di grano ricadevano a terra e la pula volava via.

Insomma, con gli animali avevo una certa familiarità, ma mai avrei pensato di finire a lavorare in un circo.


Alla cieca

È andata così. Un giorno mio cognato mi ha detto che nel circo dove lavorava si erano liberati dei posti. Io non c’ho pensato due volte e con un visto temporaneo, un biglietto d’aereo e una promessa di lavoro in mano sono partito per l’Austria, dove aveva base il circo. Sono partito da Tata alla cieca, non avevo la minima idea di cosa mi aspettasse. Mi interessava solo andare in Europa, trovare un lavoro e mettere in movimento la mia vita. Con me avevo uno zainetto, i vestiti che indossavo, un cambio e una giacca pesante. Mi avevano detto che in Austria avrei trovato freddo, ma come dirò tra un po’ ho capito cosa fosse realmente il freddo solo quando l’ho provato sulla mia pelle.

Era il 2001. Tutti parlavano dell’Euro, che era appena entrato in vigore. Ma per me era tutto nuovo, non solo il denaro. Sono atterrato a Vienna, mi è venuto a prendere mio cognato, e mi ha portato direttamente al circo. Ha parlato con il suo datore di lavoro che mi ha fatto subito un contratto, mi ha dato una tuta da lavoro, le scarpe antinfortunistica e mi ha spiegato cosa dovevo fare. Per fortuna lui parlava un po’ di francese, perché ci avrei messo troppo tempo per imparare un tedesco sufficiente per iniziare a lavorare. Non avevo fatto in tempo a sbarcare in Europa e a guardarmi intorno, che iniziava subito la mia nuova vita nel circo.


Cavalli arabi

I padroni del circo erano svizzeri, il mio capo non era solo un organizzatore, ma partecipava anche agli spettacoli dei cavalli. Non saprei dire con esattezza, ma tra chi lavorava negli spettacoli, chi con gli animali, chi manovrava la gru, gli operai, i carrellisti, gli autisti… in tutto saremmo stati tra i settanta e gli ottanta dipendenti. Marocchini, polacchi, russi, italiani, la maggior parte dell’Europa dell’est… una babele di lingue. Ognuno faceva la sua parte. Settanta i caravan in cui dormivamo e che parcheggiavamo in cerchio, intorno al tendone, ogni volta che ci spostavamo in un’altra città.

Durante il primo colloquio, vedendo che ero un tipo abbastanza sveglio, il capo mi ha chiesto di occuparmi dei cavalli. Tutte le mattine dovevo andare a pulire i box, dargli da mangiare, strigliarli e, prima di ogni spettacolo, bardarli e renderli splendenti. A questo scopo, mi avevano detto di massaggiare la criniera e il muso con l’olio d’oliva. Poi si apriva il tendone e i cavalli entravano in pista per lo spettacolo.

Non sono mai salito su uno di quei cavalli, era vietato montarli perché dicevano che rischiavamo di rovinare tutto l’addestramento fatto. Per certi versi i cavalli erano trattati meglio delle persone che se ne occupavano. Erano di quattro razze: polacchi, arabi e altre due che non ricordo. In tutto, sedici cavalli. Quattro bianchi, quattro marroni, quattro neri e quattro bianchi e marroni. Io ovviamente mi occupavo dei cavalli arabi.

Alexander Calder (1898-1976), senza titolo

La macchina del circo

Oltre a questo c’era da montare il tendone del circo ogni volta che cambiavamo città. Uno non ha idea di come fosse faticoso. I picchetti, che erano molto lunghi, andavano conficcati in profondità, il terreno era spesso indurito dal freddo e la mazza pesava una ventina di chili. E poi, i pali di ferro, molto pesanti, che reggevano il tendone, dovevano essere sollevati all’unisono. Una volta istallato il tendone, alcune persone si occupavano di montare le gradinate della platea, altri invece allestivano i box per gli animali. Ogni mattina ci svegliavamo alle sei e fino alle dieci di sera, tolte un paio d’ore per la pausa pranzo, si correva a destra e sinistra. Ci spostavamo da una città all’altra dell’Austria, in alcune ci fermavamo anche solo due giorni. Poi si smontava e si rimontava tutto da un’altra parte.

Oltre ai cavalli c’erano cammelli, che conoscevo abbastanza bene, e altri animali che non avevo mai visto, come lama, zebre ed elefanti. Per ogni famiglia di animali c’erano sempre le stesse persone che se ne occupavano. Gli elefanti, in particolare, mi dicevano che erano tranquilli solo con le persone che conoscevano bene. In realtà anche occuparsi dei cavalli può essere pericoloso: non si contano le volte in cui ho rischiato di prendere dei calci, e si sa che un calcio di un cavallo ti può anche ammazzare. I lama, al massimo, ti sputano in faccia. L’ho imparato in quei mesi. Oltre a questi animali esotici c’erano anche delle caprette che servivano a intrattenere i bambini prima dello spettacolo: potevano accarezzarle, dargli da mangiare, tirargli la barba.


Dietro le quinte

Nei quattro mesi in cui ho lavorato al circo non ho mai assistito agli spettacoli. Noi addetti agli animali dovevamo rimanere nascosti dietro il telone. Intravedevo qualcosa solo al momento dell’ingresso in pista dei cavalli o sbirciando da sotto le gradinate del pubblico. Mi incantavo a guardar correre i cavalli e tutti i salti che facevano gli acrobati sulla loro schiena.

Sono stati mesi molto duri. In particolare ricordo due momenti che mi hanno messo in crisi. Uno dei primi giorni di lavoro mi sono svegliato e mi sono accorto che c’era una strana luce. Ho guardato fuori dalla finestra del caravan e ho visto che era tutto coperto di neve. In una notte sarà caduto mezzo metro di neve. Era la prima volta che la vedevo e la toccavo. Abbiamo lavorato tutto il giorno con i guanti alle mani, si bagnavano subito e dovevamo cambiarli o lavorare con le mani bagnate. I picchetti, i pali del tendone, la mazza, i box degli animali: tutto mi sembrava di ghiaccio. Sono arrivato a mezzogiorno che ero stanchissimo. Ho parlato con mio cognato e gli ho detto che quel lavoro non faceva per me, che volevo tornare in Marocco… Lui mi ha incoraggiato, ha detto le parole giuste, mi ha convinto ad avere pazienza.

Un altro momento molto duro è stato quando è nato Majid. Fra l’altro Zainaba, mia moglie, ha avuto una gravidanza difficile e hanno dovuto portarla in un’altra città perché Tata non aveva un ospedale attrezzato. All’epoca poi non c’erano i cellulari, le chiamate erano molto costose, duravano pochissimo e non sempre si riusciva a prendere la linea. E mentre nasceva il mio primo figlio, io ero a spazzolare cavalli all’altro capo del mondo.


Come prigionieri in un campo

Noi marocchini eravamo una ventina. In generale c’era poco tempo per parlare, solo durante i pasti potevamo scambiare qualche parola. All’interno del circo c’era una specie di mensa che distribuiva piatti uguali per tutti. Mi sentivo come un prigioniero che riceve il suo rancio. Il nostro era un lavoro così faticoso che anche se mangiavi tanto, bruciavi tutto molto in fretta. E poi non era semplice trovare qualcosa che potessimo mangiare noi musulmani. Quasi ogni pietanza conteneva maiale. Molto spesso dovevo accontentarmi dei fagioli e delle lenticchie. Nessuno tra i lavoratori musulmani ha mai provato a far notare che non mangiavamo maiale. Del resto nessuno se ne accorgeva, perché quello che non mangiavamo noi lo mangiavano i polacchi, che invece di carne di maiale andavano matti!

Lo stipendio era di 500€ al mese, per lavorare tutti i giorni della settimana, domenica compresa, per più di dieci ore al giorno. Probabilmente non contavano tutte le ore e sicuramente non pagavano i contributi: molti dei miei colleghi che lavoravano al circo da tempo, quando sono andati a convertire il permesso di lavoro in permesso di soggiorno, hanno scoperto che in tutti quegli anni non avevano versato niente. Una situazione simile mi è capitata anche qua in Italia, nella prima cooperativa in cui ho lavorato: facevo anche trecento ore al mese, ma non mi pagavano nessun contributo.


Fine dello spettacolo

E poi un giorno ho deciso di ripartire. Ero arrivato lì per lavorare, ero pronto a restare uno o due anni, se necessario, anche se il lavoro non mi piaceva. Ma a un certo punto il circo è andato in crisi. Un’associazione di animalisti aveva creato un movimento di proteste per impedire che si usassero gli animali negli spettacoli del circo. E così tutte le parti dello spettacolo che prevedevano la presenza degli animali non si potevano più fare. Una volta è capitato addirittura che tenessero nascosti noi operai e tutti gli animali. Sapevano che ci sarebbe stato un controllo pesante e il padrone aveva paura di essere scoperto. Quindi hanno radunato tutti gli animali in un capannone al confine tra la Jugoslavia e l’Austria, forse in Slovenia, mentre noi lavoratori siamo stati messi in albergo per due giorni, finché non ci hanno detto che potevamo tornare. Non ho idea di cosa sia successo nel frattempo.

Poiché le proteste continuavano, il padrone si è trovato costretto a diminuire il personale e così molti lavoratori sono stati licenziati. Visto che a me ci tenevano, mi hanno proposto di occuparmi della distribuzione del cibo durante gli spettacoli, almeno fintanto che fosse durata la crisi. Ma hanno avuto il coraggio di chiedermi di lavorare senza paga! Io gli ho risposto di no. Gli ho detto che rivolevo indietro il mio passaporto, i soldi che mi dovevano e che sarei andato via di lì. Avevo una famiglia che mi aspettava in Marocco: come potevo mantenerla senza uno stipendio? Cosa avrebbero mangiato nei mesi in cui il circo tentasse di riprendersi dalla crisi?

Henri de Toulouse-Lautrec, “Al circo Fernando”,1888 , Art Institute di Chicago


In fuga

Non so se fosse legale, ma in quegli anni prassi voleva che se si entrava in Austria con un visto per lavoro, si consegnassero visto e passaporto al datore di lavoro e al momento del licenziamento il datore ti riaccompagnava in aeroporto e solo lì ti restituiva i documenti, per evitare che le persone scappassero dal luogo di lavoro grazie al quale avevano ottenuto un visto per l’Europa.

Io e mio cognato abbiamo insistito con il capo per riavere il passaporto. Lui si è convinto, ma ci ha detto che non voleva più vederci in giro. Lì al circo non avremmo più potuto mangiare o dormire, dovevamo sparire immediatamente. Noi non sapevamo dove andare e non volevamo buttare via i pochi soldi che avevamo in alberghi o ristoranti. Allora abbiamo deciso di nasconderci nel caravan dove dormivamo di solito. Avevamo un po’ di scorte lì dentro. Quando passava qualcuno, stavamo in silenzio, perché se avessero sentito delle voci si sarebbero insospettiti. Siamo rimasti nascosti lì dentro fino a quando è venuto il momento di spostare il circo in un’altra città. Durante il viaggio sono morto di paura, l’autostrada che abbiamo imboccato sembrava non finire mai. È vietato trasportare qualcuno quando il caravan è in movimento perché il peso delle persone potrebbe staccare il caravan dalla motrice o farlo ribaltare al primo scossone.


Una porta aperta

Quando la carovana si è fermata, ho aspettato il momento giusto, ho salutato mio cognato, sono andato alla prima stazione dei treni e ho preso un biglietto per l’Italia. Non c’era una ragione particolare. Non avevo appoggi in Italia, non conoscevo la lingua. Semplicemente l’Italia mi sembrava l’unica porta aperta in quel momento. Inizialmente mi sono fermato a Carpi perché lì si trovava un amico di un mio amico. Ma dopo tre o quattro giorni che mi ospitava, l’amico del mio amico mi ha detto che eravamo in troppi. In sette nello stesso appartamento avremmo dato nell’occhio.

Da Carpi mi sono spostato a Modena e lì, incredibilmente, ho trovato un mio compaesano che non sapevo vivesse a Modena. Allah me l’ha fatto incontrare! Appena mi ha visto mi ha riconosciuto perché si ricordava di mio padre. Mi ha chiesto cosa ci facessi lì e mi ha portato a casa sua.

Quando sono arrivato a Modena, l’unica cosa che mi interessava, ancora prima di trovare un lavoro, era imparare la lingua. Mi sono iscritto al Cpia. Facevo due giorni di scuola alla settimana e ho imparato velocemente. Ovviamente ero senza documenti, ma in quel periodo bastava il passaporto per iscriversi al Cpia.


Altro biglietto, altro giro

Dopo circa un anno, nel giugno del 2002, il Governo ha aperto una sanatoria e sono riuscito a prendere un permesso di soggiorno. L’anno in cui ero senza documenti è stata dura, lavoravo per una cooperativa di somministrazione lavoro. Senza documenti non avevo la possibilità di essere messo in regola. La cooperativa mi faceva lavorare in nero e mi teneva giù due terzi dello stipendio. A me come ad altri lavoratori. A un certo punto scoprimmo che la cooperativa prendeva quasi 24€ all’ora per la somministrazione di un operaio e agli operai andavano tra i 3 e i 4€ all’ora.

Non avevo paura di denunciarli. Sapevo che non sarei stato espulso se avessi denunciato. Anzi, la ditta avrebbe pagato una multa e io forse avrei ottenuto i documenti. Ma in quel momento pensavo che tutto sommato stessero facendo un piacere a me: senza i documenti non avrei potuto fare altro. Mi stavano derubando, era evidente, ma con quei pochi soldi che mi arrivavano potevo pagare l’affitto, fare la spesa e mandare qualcosa alla famiglia. Ma questa è un’altra tappa del circo della mia vita e meriterebbe un’altra storia.

A proposito di “circhi”, dopo tutti questi anni di fatica mi rimane un sogno per la pensione: vorrei comprare un caravan, viaggiare con Zainaba in tutta Europa e andare in tutti quei posti che ancora non sono riuscito a vedere.

(Dichiarazioni raccolte da Giorgia Ansaloni)

1 Comments Leave a Reply

  1. Es la historia de muchos inmigrantes, una vida dura, pero llena de esperanza y fé. Me gustó el hecho de que siempre está buscando cumplir sus sueños a pesar de las dificultades.
    Me cautivo la historia desde el principio a fin, felicitaciones 👏😃

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