La cultura del pane nel Medioevo
Dal XII secolo si evidenzia in Italia un incremento del consumo del pane nell’alimentazione delle popolazioni urbane e rurali. In questo periodo, caratterizzato da un forte incremento della popolazione, grandi disboscamenti e bonifiche portano alla progressiva affermazione di cereali come la segale, la spelta, l’orzo ma soprattutto il frumento, destinati alla produzione del pane.
Si panifica, oltre che con il frumento, anche con cereali minori, come pure con legumi, castagne e talvolta ghiande. Questa differenza negli ingredienti e di conseguenza nel prezzo fece sì che il consumo del pane si caratterizzasse da un’ampia trasversalità sociale: le popolazioni cittadine si orientarono verso il pane di frumento (i più abbienti considerarono il pane bianco il solo compatibile con il loro status) mentre nelle campagne si fece spesso ricorso ai cerali minori (in primo luogo segale, orzo, miglio, panico). Proprio in questi secoli si diffuse ampiamente il termine companaticum (cum panem) che sottolinea la centralità del “pane” che poteva essere accompagnato ai cibi più vari.
Nel Cinquecento in quasi tutta la zona modenese i fondi agricoli venivano suddivisi in due parti, una coltivata a cereali e l’altra lasciata a prato. Non si seminava soltanto il grano ma anche la spelta, l’orzo, la veccia. L’orzo mescolato con fava e veccia costituiva il nutrimento principale delle famiglie rurali modenesi. Spesso però, a causa di alluvioni o periodi di siccità, catastrofiche carestie fecero morire di fame migliaia di persone.
Per questo motivo tra il cinquecento e il settecento il Governo modenese cercò di sviluppare un’adeguata “Politica Annonaria” tesa a garantire l’assistenza alimentare minima alla popolazione attraverso il controllo della produzione, della provvista e della distribuzione dei beni di prima necessità, tra i quali avevano un ruolo centrale i cereali e le “biade” cioè le leguminose.
L’antico forno di Nonantola
Il forno era di competenza della Comunità di Nonantola e poteva essere gestito in due modi: mediante un appalto a privati o con una conduzione diretta, in economia, previo il pagamento di un salario al fornaio comunale. Il fornaio rivestiva una grande importanza per il Comune perché molto spesso i braccianti che prestavano la loro opera nei lavori pubblici venivano pagati fornendo loro una “tiera” di pane.
La vendita del “pane venale” avveniva “sotto la porta di Nonantola nelle Botteghe solite (dove si trova oggi il forno della Piazzetta del Pozzo) e ne era deputato un venditore con incarico triennale. Nel locale in cui si vendeva il pane non si poteva vendere altro, né farina né frumento e né carne. L’orario di lavoro era pesantissimo: dal levare del sole all’Ave Maria della sera. Il fornaio lavorava anche nei giorni festivi tranne a Natale e a Pasqua.
La comunità riforniva il fornaio di farina in sacchi. Egli, a sua volta, era obbligato a rifornirsi dalla Comunità e solo nel caso in cui le scorte comunitarie fossero insufficienti era autorizzato a rivolgersi altrove. Il fornaio era obbligato a utilizzare frumento che non avesse cattivi odori, che fosse ben pulito, senza loglio o veccia. Doveva setacciare la farina con un buratto (setaccio) a trama fina, della stessa qualità usata sulla Piazza di Modena e fare un pane ben custodito e ben lavorato. Nel caso in cui il prodotto si presentasse diverso da quello stabilito e soprattutto di minor peso veniva requisito dai Sindaci della Comunità e distribuito ai poveri gratuitamente senza che il fornaio potesse pretendere alcun rimborso. Per ottenere l’appalto il fornaio versava una congrua somma e aveva anche l’obbligo di confezionare delle chiopette belle bianche su richiesta di cittadini di Nonantola. A tutela del suo lavoro si vietava a chiunque la fabbricazione del pane da vendersi sul territorio.
Il pane venale e il calmiere
Il fornaio produceva il cosiddetto pane venale o da scaffa, per la vendita alla piazza e consumato dalle fasce più povere della popolazione. Si trattava di un prodotto regolato da norme molto precise formato da farina di frumento, una parte di crusca (tritellino) lievito ed acqua.
Era sottoposto al calmiere cioè al prezzo di mercato del grano. Dal prezzo di calmiere, calcolate le imposte, i costi di produzione eì il guadagno del fornaio si ricavava il peso della “tiera”, cioè la forma del pane messa in vendita ad un prezzo prefissato e costante nel tempo.
Quando sul mercato, per effetto della insufficiente offerta rispetto alla domanda (cosa che avviva molto spesso a causa della scarsa produttività agricola) il prezzo del grano aumentava, i consumatori in cambio della solita somma di denaro ricevono un minore quantitativo di pane.
Da parte loro i fornai spesso ricorrevano ad espedienti fraudolenti per accrescere il loro margine di guadagno. Nell’Archivio Storico del Comune si ritrovano spesso documenti che riportano le lamentele della popolazione di Nonantola a causa della qualità del pane. Ad esempio il 30 aprile 1758 furono portati in Consiglio della comunità alcuni campioni di pane così mal cotti e condizionati che venne ordinato al sindaco di distribuirlo tutto ai poveri gratuitamente.
I mulini e i mugnai a Nonantola.
Dalla documentazione conservata negli archivi di Nonantola emerge l’importanza che rivestivano i mulini ad acqua fin dal medioevo. Essi funzionavano come strumenti di controllo sulla popolazione locale obbligata a recarvisi per la macinazione dei cereali sia come strutture da curare costantemente perché strettamente legate ai corsi d’acqua.
Nell’attuale territorio nonantolano erano presenti due importanti mulini: il Mulino dell’Abate e il mulino dell’Ampergola. Essi facevano parte di una serie di opifici idraulici dislocati in punti strategici lungo il corso del Canal Torbido, ad una distanza quasi uguale l’uno dall’altro. Dall’importanza del mulino derivava la posizione di preminenza economica e sociale del mugnaio il quale, per ogni sacco portato a macinare se ne tratteneva una parte detta molenda come indennizzo. Il mugnaio a seconda dei cerali portati al mulino otteneva diverse qualità di farine: dal frumento si otteneva una farina per fare il pane migliore, quello a pasta bianca. Questo tipo di farina veniva usata anche per confezionare la pasta. La segale, invece, veniva misturata con farina di frumento così da ricavarne un pane discretamente buono. Con la farina di avena si otteneva un pane molto soffice e l’orzo misturato con la segale veniva usato in gran quantità perché poco costoso. Il pane che si otteneva era quello usato dalle persone più povere.