Fotogramma di Hau hasard Balthazar

Alcuni film impossibili sugli animali

Una mail di consigli su cinema e animali
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Prima di tutto vi posso passare il dittico dei somari: Au hasard Balthazar e EO di Skolimowski.

Il primo è interamente doppiato in italiano; il secondo invece sceglie programmaticamente di immergere lo spettatore – e il somaro – in un transito fra Polonia e Italia, caratterizzato dal multilinguismo dei personaggi, a sottolineare la peripezia caotica e babelica dell’eroe eponimo. La colonna sonora mette sullo stesso piano la voce umana e i versi degli animali dando risalto all’eterogeneità delle loro espressioni reciprocamente intraducibili. La musica e i suoni inorganici degli elementi naturali o delle macchine sovrastano spesso i domini della comunicazione tanto umana che animale, conferendo una particolare qualità orfica al mondo rappresentato, il cui punto di fuga è nel limite esterno dell’esperienza sensoriale, affettiva e intellettuale, verso il “fuori” che vibra, che incombe, che risucchia.

Skolimowski è forse il più interessante e il più virtuoso degli autori della nouvelle vague polacca: forza molto le convenzioni narrative, esplora le possibilità tecniche del mezzo, perciò è più affascinante ma anche meno commestibile di Polanski.

Il cinema di Skolimowski è anche spesso un cinema della migrazione, della rottura delle matrici, dell’estraneità, dell’eterofilia, dell’erranza e della clandestinità (mentre Polanski, nonostante la biografia da esule eterno, è assai cosmopolita, meno rapsodico e più romanzesco, e deve a questo gran parte della sua popolarità).

Ho anche un dittico sui galli da combattimento (sarebbe un trittico se riuscissi a ritrovare El imperio de la fortuna di Arturo Ripstein che ho visto su MUBI qualche tempo fa e che narra le vicende picaresche di un nullatenente, che improvvisamente si arricchisce, poi si impoverisce di nuovo, in un ambiente suggestivo, presentato nelle cifre del realismo magico, che illustra l’equivalente messicano del concetto machiavelliano di fortuna, rovesciato però in favore della donna, fatale in virtù della sua capacità di subire la propria oggettivazione fino a farsi emblema inquietante e trionfante della tempesta).

I due film sui galli che posso portarti sono Cockfighter di Monte Hellman e S’en fout la mort (Al diavolo la morte, il titolo in italiano) di Claire Denis. Purtroppo (per l’accessibilità) sono entrambi in lingua originale e sottotitolati in italiano.

Cantore dell’America profonda e rurale, e del vagabondaggio come forma paradossale di radicamento, Monte Hellman si colloca in modo originale tra Peckinpah e Dennis Hopper, nel cinema poetico e minore che segna la crisi degli studios e la ricezione americana della nouvelle vague, nella fase crepuscolare precedente la nuova autorialità che doveva ancora venire (i vari Scorsese, DePalma, insomma i movie brats). Sarebbe la proposta più facile e più popolare, non fosse per l’ostacolo linguistico e i sottotitoli. Scazzottate, rapine, vita nelle roulotte, folclore del gallodromo, intrecciati con la storia del protagonista e dell’arresto del suo sviluppo, della sua psicologia masturbatoria da dropout. Pare che il distributore avesse concepito per promuovere il film questo claim pubblicitario: “He came into town with cock in his hand, and what he did was illegal in 49 states”. Traduzione alla buona: “Arrivò in città con il gallo in mano (ma “cock” sta anche per “pisello” ndAlle), e quel che fece era illegale in 49 stati”.

Vi ho già fatto vedere Chocolat di Claire Denis. S’en fout la mort è molto bello. Storia di meticciato, clandestinità, doppi legami, personaggi mossi da contraddizioni patologiche. Il gallo da combattimento, più ancora del somaro, si presta per le metafore dello sfruttamento e dell’autosfruttamento, per la fenomenologia della cura e dell’addestramento. Un animale che diventa tale nella sofferenza e nella morte, ma è anche un feticcio e un veicolo per proiettare desideri, ossessioni e identità.

Fotogramma di S’en fout la mort

Ti posso portare anche Kes, uno dei primi film per il cinema di Ken Loach. Anche questo in lingua originale con i sottotitoli. Storia di un bambino sottoproletario che vive nella suburra squallida di un distretto minerario nello Yorkshire. Il bambino sfigatissimo, schiacciato tra la famiglia disfunzionale, il lavoro povero e la violenza istituzionale della scuola, si ritaglia una parentesi di libertà e di autorealizzazione allevando e addestrando un falchetto.

Temo che tutti i film belli sugli animali siano impegnativi. Non ha tutti i torti Hegel quando nella sua estetica rifiuta di considerare la possibilità del bello naturale. Filmare l’animale significa presentare al pubblico un elemento inevitabilmente ultra-codificato, oppure il correlativo oggettivo di qualcosa che sfugge, che non si riesce a nominare e riportare ai modelli delle relazioni umane. Non si capisce mai del tutto se è lecito commuoversi, inorridire, partecipare, mettere l’animale al posto di un personaggio, interpretare i comportamenti di una creatura che non interpreta. Così. Altrimenti c’è solo l’inferno circense e il bieco naturalismo del Commissario Rex e di Francis il mulo parlante.

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