Svizzera anni ’70, Nino Manfredi è Giovanni Garofoli, detto Nino, un immigrato italiano che ha lasciato moglie e figli per cercare fortuna in Svizzera. Nino ha voglia di integrarsi, di trovare un lavoro stabile, di ottenere l’ambito permesso di soggiorno e ricongiungersi alla famiglia per rifarsi una vita in quel paese che, a differenza dell’Italia, sembra così ordinato e dove tutto pare funzionare alla perfezione.
Una storia simile a quella di mezzo milione di italiani che in quegli anni raggiungevano la Svizzera soprattutto dal meridione. Per gli svizzeri la manodopera era una necessità: loro 5 milioni di persone con un’economia fiorente, gli Italiani molti di più e bisognosi di lavorare. Domanda e offerta sembrerebbero incontrarsi in maniera perfetta, ieri come oggi. Eppure sappiamo bene come in quel contesto fiorissero la diffidenza, il sospetto e l’insofferenza per i “meridionali” d’Europa: turchi, italiani, greci, spagnoli. Proprio alla fine degli anni ’60 le idee xenofobe delle campagne anti “inforestierimento” (oggi diremmo “sostituzione etnica”) agitano quella terra apparentemente pacifica e per gli stranieri la vita si fa sempre più difficile.
Nel film questa situazione, ingiusta e tragica, è raccontata nel segno dell’ironia, della poesia e del grottesco, attraverso le vicende che Nino affronta e che, come in un inferno dantesco dell’immigrazione, lo conducono di girone in girone verso i bassifondi della clandestinità. Prima perde il lavoro e il permesso di soggiorno a causa di un’innocente pisciata a bordo strada; poi si rifugia a casa di Elena, un’esule greca scappata in Svizzera per sfuggire alla dittatura dei Colonnelli, che alle premure di Nino antepone l’amicizia interessata con un algido poliziotto svizzero; infine viene assunto da un miliardario italiano (Johnny Dorelli) espatriato in Svizzera per ragioni fiscali che si suicida dopo aver sottratto tutti i risparmi di Nino.
Alcune scene non si dimenticano più. A partire dalla quella iniziale, perturbante come un racconto di Dürrenmatt: parco cittadino, giorno di festa, bambini che giocano ordinati, famiglie felici, musica armoniosa suonata da un quartetto d’archi. Tutto sembra pulito, civile, equilibrato. Ma a un certo punto Nino entra in un boschetto per recuperare la palla di un bambino col quale aveva cercato, inutilmente, di attaccare bottone, e trova una bimba riversa tra le foglie, appena assassinata e, probabilmente, violentata. Forse non è oro tutto quello che luccica…
Altra scena indimenticabile. Dopo il licenziamento, Nino torna a dormire nelle baracche dei compaesani in cui probabilmente ha vissuto i primi anni di immigrazione. Per allietare la serata, insieme a Gigi, muratore rimasto zoppo per la caduta da un’impalcatura, e Renzo, giovane operaio dall’animo sensibile, organizza uno spettacolo di travestimenti e canzoni scurrili. Dopo le prime sguaiate risate del pubblico, quando Renzo entra in scena travestito da “Rosina” tutti ammutoliscono ammaliati dalla malinconica bellezza del ragazzo. Una scena che vale più di mille conferenze sull’identità di genere e sulla “doppia assenza” dei migranti.
Terza memorabile sequenza: verso la fine del film, quando Nino si ritrova col culo definitivamente a terra, finisce presso una famiglia di immigrati napoletani che lavorano a cottimo in un macello clandestino e che per risparmiare sull’affitto hanno riattato un vecchio pollaio dove vivono in promiscuità con le galline . Pare che l’idea sia stata suggerita da un fatto di cronaca che Brusati lesse durante la lavorazione del film a proposito di una famiglia di immigrati italiani scoperti a vivere in una porcilaia. In uno dei momenti più concentrati del film, quando Nino, rispecchiandosi nella vita animalesca dei compaesani, si domanda: “chi so’ io?”, improvvisamente arriva nei pressi del pollaio un gruppo di giovani svizzeri dalla chioma bionda e fluente che si muovono nella natura come ninfe e fauni. Di fronte all’incanto di questo spettacolo, gli uomini-pollo sembrano accorgersi per la prima volta dello stadio brutale a cui sono regrediti.
Il film, oltre a raccontarci in maniera caricaturale ma verosimile la situazione dei migranti italiani in Svizzera, ha un ulteriore piano di lettura. Si potrebbe dire che possieda due anime. Quella popolare e sensibile di Manfredi, che dà credibilità al personaggio di Nino anche quando è coinvolto nelle vicende più assurde, e quella intellettuale e raffinata di Brusati, a cui non interessano i determinanti sociali del razzismo e dello sfruttamento lavorativo quanto piuttosto i margini di libertà e d’azione che, nonostante tutto, Nino riesce a prendersi. Non si tratta di un film di denuncia, ma di un’opera articolata che arriva a parlare della condizione umana del senso di sradicamento e di “non appartenenza” che, in maniera più o meno profonda, ognuno di noi ha sperimentato.
A partire dal titolo, che oppone il comune ma vitale pane alla sublime e superflua cioccolata, Brusati costruisce il senso di smarrimento del protagonista attraverso una serie di contrasti che Nino non sa e forse non vuole ricomporre. Molte sono le situazioni in cui si trova a dover scegliere tra il cinico rigore elvetico e lo sgangherato folklore italico. E ogni volta sente di non appartenere a nessuno dei due.
Pane e cioccolata è un film che non dovrebbe mancare nella videoteca di una scuola di italiano per stranieri, non solo perchè, come abbiamo verificato, “funziona” benissimo sia con gli italiani che con gli stranieri, ma perchè oltre a far ridere e commuovere, presenta la condizione degli immigrati sotto una luce originale e liberatoria: il disadattamento di chi vive in un paese straniero è visto non solo come condizione di minorità che necessita di empatia, accoglienza e politiche dignitose, ma anche come dichiarazione di autonomia e libertà. Libertà dalla cultura di provenienza come da quella che “l’integrazione” vorrebbe imporre.