Enzo Manfredini, La crisi del carbone

La svolta dei tempi

7 Novembre 2022

Il riferimento alla formula paolina – che nell’annunciare l’avvento prossimo del Regno prediceva in effetti la fine dell’Impero romano e con esso dell’intero assetto politico e culturale del mondo antico – vuol significare la presa d’atto di un mutamento epocale: culturale, sociale, economico, geopolitico, ambientale, religioso, antropologico; vale a dire un cambio d’epoca radicale da cui ci si deve attendere molta violenza, molta perdita, molta sofferenza per quasi tutti. Una situazione che sarebbe di per sé da «fine del mondo», ma che noi possiamo tradurre laicamente a condizione di saper leggere nella situazione di massimo pericolo l’emergere di capacità reattive, di energie morali, di strategie intellettuali e pratiche che, consapevolmente o meno, prefigurano un altro stato delle cose. Tuttavia affinché le strategie di resistenza operanti nel quotidiano giungano ad essere consapevoli del loro significato sociale e politico, occorre la mediazione di un esercizio intellettuale che renda coscienti del come si è giunti a questo presente (Hannah Arendt nel dopoguerra: «Come è potuto accadere tutto questo?»), e scopra le potenzialità da cui può generarsi un futuro diverso da quello iscritto nella logica dominante. Occorre perciò un duplice movimento, l’uno finalizzato a comprendere più a fondo il presente interrogandosi sul passato, l’altro teso a generare futuro sostenendo e orientando le energie positive (bisogni, desideri, aspirazioni, volontà di cambiamento).

Del primo movimento abbiamo molti e significativi esempi che aiutano a leggere il presente. Robert Musil descriveva così la situazione in Europa dopo la prima guerra mondiale: «La vita procede esattamente come prima, semplicemente un po’ indebolita e con la cautela tipica degli ammalati; la guerra operò in maniera più carnevalesca che dionisiaca, e la rivoluzione si è parlamentarizzata. Noi eravamo un po’ di tutto e non siamo cambiati per nulla, abbiamo visto molto e non ci siamo accorti di niente. C’è soltanto una risposta credo: noi non possedevamo i concetti per interiorizzare il vissuto. Oppure forse non possedevamo i sentimenti il cui magnetismo attivi i concetti verso tale scopo. È rimasta soltanto una stupefatta inquietudine, una condizione come se dall’esperienza vissuta avessero cominciato a costruirsi fasci di nervi e fossero stati recisi anzitempo (…) Così appare dunque la storia mondiale vista da vicino: non si vede niente». Ne è conseguita per gli europei l’inizio di una deriva in un «mare di realismo privi di una forma spirituale che ponga ordine al pullulare dei fatti: i fatti del passato, i fatti delle singole scienze, i fatti della vita ci sovrastano disordinatamente». In altri termini, Musil ci avverte che stiamo oramai vivendo la fuoriuscita definitiva dallo spirito che aveva orientato i grandi umanisti, i quali «avrebbero percepito la misura del disordine spirituale e della bruttura, con cui oggi dobbiamo fare i conti, come intollerabilmente umiliante» (L’Europa inerme, 1922).

Di un siffatto disordine e bruttura altri si fecero analisti tra le due guerre (innanzitutto Benjamin e Simone Weil), ma non è servito a impedire nel secondo dopoguerra il ripetersi aggravato dell’opacità denunciata da Musil e in definitiva l’impulso a volgere decisamente le spalle al passato e con esso all’imperativo di dar vita al «nuovo umanesimo» che aveva sostenuto Etty Hillesum nella prova estrema. Le voci a contrasto sono state poche e sono rimaste sostanzialmente senza effetto. È il caso per Hannah Arendt e per la giovanissima Ingeborg Bachmann. Ma l’allarme di Musil risuona chiaro anche nella sorprendente presa di posizione di Elsa Morante negli anni sessanta. Il linguaggio ovviamente è diversissimo, ma è comune la percezione di una svolta nella storia europea che tocca l’antropologia prima ancora che la geopolitica. Mi riferisco in particolare a Pro o contro la bomba atomica, una sorta di manifesto etico-politico teso a denunciare «l’irrealtà della pace seguita alla guerra mondiale», poiché «non c’è pace finché l’irrealtà cieca devìa le coscienze degli uomini», cosicché «allo sfruttamento economico, contro il quale i movimenti rivoluzionari presumono di combattere, corrisponde, come un’altra faccia, forse ancora più squallida dello stesso fenomeno sciagurato, l’alienazione dalla realtà, che tende a trasformare gli uomini in automi incapaci di libertà e di giudizio». Cosicché il compito dello scrittore le appare come mai prima quello di avere coscienza e di opporsi al «sistema in atto della disintegrazione». Trovo illuminante questo insegnamento che coglie in un unico nesso sfruttamento economico e alienazione dalla realtà, e perciò va oltre il puro conflitto sociale investendo la totalità del vissuto nella nostra società. C’è dunque nell’interrogazione del passato un impatto diretto sul presente.

L’altro movimento, inseparabile dal primo come i due bracci di una tenaglia applicata ad afferrare la realtà, sta nella capacità di leggere il presente senza i paraocchi dell’ideologia o di metodologie interpretative precostituite e perciò dall’esterno, dall’alto, da una posizione di sicurezza che di fatto impedisce di cogliere e accogliere la complessità del reale. Occorre al contrario una disponibilità a dichiarare il «luogo» da cui parliamo, scriviamo, giudichiamo, e dunque in che misura il confronto con la realtà mette in gioco la nostra posizione. Ora a questa consapevolezza e assunzione di responsabilità non si giunge altrimenti che attraverso uno scatto morale e conoscitivo; è quel che intendeva Musil quando denunciava l’assenza di sentimenti in grado di attivare i concetti indispensabili per interiorizzare il vissuto o, detto altrimenti, la mancanza di passione per la realtà intera, per ciò che è, per il mondo come sta. In questo, va da sé, occorre in gran parte farsi maestri a se stessi, a cominciare col prendere coscienza della qualità e fermezza del sentimento che muove, quindi del modo di vivere le scelte, la professione, il lavoro, la realtà su cui ci si trova ad incidere. Di fatto il futuro è tracciato dalla somma delle scelte operate da ciascuno in forza del sentimento che si ha di sé in rapporto a ciò di cui fa esperienza (Simone Weil che dopo l’esperienza di fabbrica scopre la propria importanza in rapporto a coloro che non contano nulla e non conteranno mai, qualunque cosa accada).

Allora la domanda è: possiamo fare qualcosa d’importante in rapporto alla drammaticità della situazione attuale? E come in concreto? Penso di sì nella misura in cui riusciamo a cambiare sguardo sulle realtà sociali di cui ci occupiamo, considerandole meno come occasione di analisi o di intervento, più come situazioni umane da cui apprendere e rendere parlanti. Si tratta di comprendere da dove questa società tecnicizzata e consumistica è ancora in grado di trarre una sostanza di intelligenza e di sogno, di essere malgrado tutto inventiva e capace di conservare la presa sulla realtà. Si tratta di tenere aperta la circolazione tra la cultura «alta» di cui siamo portatori e quella che si esprime in una molteplicità di circostanze e di reti informali. In definitiva la questione è come la cultura circola in questa vita sociale e come renderne il flusso quanto più possibile libero e ricco di contenuto reale. Dunque una concezione della cultura come interscambio piuttosto che come contenuti elaborati da calare su quanti ne sono sprovvisti; non più procedimenti unidirezionali, ma, come auspicava Michel de Certeau, «un lavoro da intraprendere su tutta l’estensione della vita sociale», pur prendendosi cura di un particolare spazio di movimento, in modo da fare emergere i linguaggi di una cultura plurale. Muoversi in questo senso è difficile, perché noi siamo ancora ampiamente partecipi del vecchio convincimento di Benedetto Croce per cui «la storia procede sempre dall’alto in basso».

In conclusione. La rivista può diventare espressione di questa pluralità di linguaggi e dunque non più interlocutrice di movimenti o di minoranze, bensì riflesso di una realtà frammentata, incoerente, in balia di poteri soverchianti e che tuttavia resta inventiva e con ancora una qualche presa sulla realtà? Altrimenti è bene che punti ad essere espressione di una riflessione forte e chiaramente orientata sui grandi temi del presente; uno strumento di orientamento culturale e di proposta politica.

Le illustrazioni che accompagnano l’articolo di Giancarlo Gaeta sono di Enzo Manfredini, caricaturista e illustratore modenese emigrato a Parigi all’inizio del ‘900 al seguito di Marinetti. Si arruola volontariamente (e probabilmente con entusiasmo, visto l’entourage che frequentava) nelle file dell’esercito francese per la Prima guerra mondiale. Ne torna ferito nel corpo e nell’animo e inizierà a disegnare barboni e soldati cenciosi e malinconici. Nell’illustrazione che chiude l’articolo vediamo un soldato tedesco (lo si capisce dall’elmo a punta di origine prussiana) che attraversando un villaggio di campagna appena messo a ferro e fuoco dal suo esercito, rende omaggio al cadavere di una bambina con uno sguardo dolente e perso nel vuoto. Le note appuntate velocemente da Manfredini sul bordo della cornice, qui non visibili, riportano una citazione di Guglielmo II, imperatore di Germania e re di Prussia: “Dal punto di vista religioso, noi siamo dei mistici”.
Enzo Manfredini morirà in un ospedale psichiatrico di Roma esattamente cento anni fa, nel 1922.

Giancarlo Gaeta

Giancarlo Gaeta ha insegnato storia del cristianesimo delle origini. È uno dei più importanti studiosi di Simone Weil e a lui si devono la cura e la traduzione in italiano della maggior parte delle opere della filosofa francese. Tra i suoi lavori più recenti "Il tempo della fine" e "In attesa del Regno", editi entrambi da Quodlibet nel 2020 e nel 2022.

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