Una bella mattina di inizio estate vado a visitare due miei cari pazienti, Albertina ed Ernesto, per il solito controllo mensile. Sono due persone molto anziane, entrambe novantenni. La loro condizione fisica non gli consente di venire in ambulatorio. Sono assistiti amorevolmente dai figli e da una badante che si occupa di loro durante il giorno. Molti anni fa Ernesto ha avuto un brutto incidente vascolare che ne limita molto la mobilità, ma non lo spirito e la battuta pronta, e mi diverto moltissimo quando dice s’an muramm per un chélz d’un grèll, an muramm piò! Traduzione per i non nonantolani: se non moriamo per un calcio d’un grillo, non moriamo più!
Alberta invece è malata di Alzheimer, ha poca coscienza del suo problema, ma è sempre allegra, adora la buona tavola e a ogni pasto beve volentieri un buon bicchiere di vino. Ieri era molto contenta perché all’improvviso ha sentito nella sua testa tante canzoni e tante musiche che le hanno tenuto compagnia. Una in particolare le è rimasta impressa e la canticchia in continuazione: i pulsein i van a scóla e la cioza l’agh va a drée… Insomma, l’ho trovata particolarmente felice.
Rientrando in ambulatorio pensavo a come sono labili e incerti i concetti di normalità e di benessere… Alberta ed Ernesto, pur con i loro problemi di salute, non piccoli, hanno raggiunto, e per ora mantengono, un equilibrio che li rende a loro modo felici. Penso che dobbiamo tener conto di questo nelle nostre relazioni, non solo professionali. Imporre un nostro modo di vedere o di intendere la normalità e la felicità può essere molto dannoso, e ancora di più emettere giudizi definitivi e trancianti, anche su chi magari “ha venduto per tremila lire sua madre a un nano”.
Per meglio comprendere la faccenda della madre e del nano che l’ha comprata per tremila lire, ascolta qui: