Partiamo dalla fine, dal gesto un po’ folle per il quale molti a Nonantola ricordano Eliseo Zoboli: il lungo esilio volontario dentro la Torre dei Modenesi. Una secessione dalla società nonantolana durata ininterrottamente per 14 anni, dal 1926 al 1940, anno della morte di Zoboli.
Ma che cosa ha portato un dirigente sindacale, ex assessore, una delle persone più conosciute di Nonantola a ritirarsi per sempre, fino alla morte, nella torre del paese? La sua è stata una resa o un gesto di autoaffermazione? Voleva nascondersi o al contrario voleva che tutti lo vedessero?
Di sicuro sembrerebbe il gesto di un pazzo o di un mitomane, se non provassimo a ricostruire come e per quali via Eliseo Zoboli finì dentro la torre. I miei ricordi sono limitati e le uniche fonti da cui attingo sono alcune, pochissime, ricostruzioni storiche, i racconti di mio padre e le impressioni che mi sono rimaste di quando ero un bimbetto e passavo sotto la Torre dei Modenesi con uno stato d’animo che era un misto di paura e attrazione per l’uomo rinchiuso là dentro, un uomo amatissimo da mio padre e odiato da molti nonantolani e dalle istituzioni del paese. Ben altri studi e ricerche meriterebbe questa storia. Speriamo di far venire voglia a qualcuno che abbia le competenze e i mezzi per farli.
Soprannominato “al cino”, che in dialetto bolognese significa “il bimbo”, probabilmente perché piccolo di corporatura, Eliseo Zoboli non nasce a Nonantola, a Nonantola ci arriva quando la famiglia, di origine contadina, si trasferisce lì da Castelfranco Emilia, nella seconda metà dell’Ottocento. In quell’epoca i contadini, ovvero la maggioranza della popolazione nonantolana, sono rassegnati a vivere e a lavorare in condizioni durissime. Alle stagioni estive di estenuante lavoro seguono inverni di freddo e, in certi periodi, di fame. Le case in cui passano la maggior parte del tempo le famiglie contadine sono umide, con poca aria, malsane e soprattutto freddissime.
E tra i miseri contadini, i braccianti sono i più miseri di tutti, quelli più esposti ai disegni della sorte. A differenza dei mezzadri, che godono di accordi con i proprietari terrieri che oggi definiremmo “a tempo indeterminato” (sebbene senza ferie, malattie e infortuni), i braccianti lavorano a giornata. Tradotto: se si lavora si mangia, se non si lavora (per la pioggia, il gelo, la fine della potatura o a causa di una malattia che ti costringe a letto) niente cibo, né per se, né per i propri figli.
Non ci sono ancora partiti né organizzazioni che tutelino i loro interessi e loro stessi faticano a organizzarsi per pretendere condizioni di lavoro e di vita più sopportabili. La chiesa stessa, nel suo complesso, ostacola la loro emancipazione. La maggior parte di cappellani e arcipreti di Nonantola si adopera a raffreddare i bollori dei loro parrocchiani e soffoca le loro spinte ad auto organizzarsi: la durezza della vita non è imposta dai padroni, dicono nelle prediche, ma dal buon Dio a cui tutti, padroni e contadini, sono sottomessi. Se ci sarà una ricompensa ai propri sforzi, non è in questa vita che va cercata.
Ma tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento qualcosa comincia a cambiare. Vengono costituite le prime “leghe di resistenza” dei braccianti e dei birocciai (i conduttori dei “biroc”, i carretti trainati da muli, cavalli o buoi). Si tratta di forme associative che appunto “legano” tra loro i lavoratori, letteralmente li uniscono. Insieme decidono tariffe e ore di lavoro, insieme si presentano ai padroni così da avere un potere contrattuale maggiore. L’unità è una condizione indispensabile per dar vita alla “resistenza”, cioè al conflitto con le controparti, gli agrari e i proprietari terrieri, e ottenere condizioni di lavoro più dignitose.
E le cose iniziano a cambiare principalmente per due ragioni: perché i braccianti si organizzano e perché iniziano a lottare. Esempi di organizzazione sono appunto le leghe, ma anche le camere del lavoro, il collocamento, le cooperative di produzione e quelle di consumo, le cantine sociali. Esempi di lotta sono ovviamente gli scioperi, sia quelli tradizionali sia quelli “a rovescio”, sperimentati soprattutto nel secondo dopoguerra. Negli scioperi tradizionali i lavoratori incrociano le braccia per reclamare stipendi migliori, orari e strumenti di lavoro più adeguati; in quelli “a rovescio” i disoccupati lavorano, non pagati, su terreni pubblici o privati per dimostrare che il lavoro che reclamavano è lì, bell’e pronto, e tutti ne potrebbero beneficiare: la costruzione di strade e canali, opere di bonifica, introduzione di nuove tecniche di coltivazione, ecc. Non c’è tempo per descrivere tutte queste forme di organizzazione e di lotta, ma la loro forza creativa avrebbe ancora tantissimo da insegnare ai braccianti e soprattutto ai sindacati di oggi!
A Nonantola Eliseo Zoboli è uno dei protagonisti di questa stagione di organizzazione e di lotta. Mio padre era semianalfabeta, ma nella sua misera cultura aveva un socialismo profondamente radicato. A portarlo su quella strada era stato proprio il Cino Zobel, un uomo che sapeva trovare le parole giuste per parlare ai braccianti.
Nel 1903 il Cino e altri dirigenti della lega di resistenza dopo quaranta giorni di sciopero ottengono di fare dei lavori di bonifica sul territorio. Nel 1904 organizzano la prima cooperativa di consumo. Sotto la pressione di queste spinte e di questi movimenti dal basso, negli stessi anni il Comune di Nonantola allestisce una cucina di beneficienza per alleviare i morsi della fame durante l’inverno e inizia la costruzione delle fogne in paese.
Grazie a queste conquiste e ai miglioramenti nella resa delle terre coltivate queste organizzazioni iniziano a ottenere consenso e partecipazione da parte dei contadini e, spinto da questo sostegno, Eliseo Zoboli nel 1914 diventa assessore con delega all’agricoltura e ai lavori pubblici in una delle prime amministrazioni socialiste.
Ma nel giro di pochissimi anni, l’avvento del fascismo blocca anche a Nonantola questi esperimenti di partecipazione democratica delle classi più povere. E Zoboli, che in quel periodo ricopriva incarichi di primo piano nel movimento operaio e socialista locale, viene preso di mira dai fascisti, i quali inizialmente tentano di portarlo dalla loro, nelle leghe e nei sindacati fascisti, poi, vista la sua intransigenza, cominciano a isolarlo e aggredirlo. La sede della camera del lavoro di Nonantola viene distrutta più volte, e lui stesso viene ripetutamente malmenato.
Forse per il consenso che il fascismo agrario ottiene un po’ dappertutto (e Nonantola non fa eccezione), forse per il fianco che istituzioni dello stato come la prefettura, i carabinieri, la questura offrono ai gruppi fascisti locali, ecco che Eliseo Zoboli come forma di protesta e di disobbedienza decide di ritirarsi in esilio in uno degli stanzoni della Torre dei Modenesi, che in quegli anni erano adibiti a ricovero per famiglie povere e per i derelitti.
Quando ero bambino sentivo spesso i miei che parlavano del Cino ma lo facevano con un po’ di paura, a bassa voce. Abitavamo al primo piano ed evidentemente temevano che orecchie indiscrete potessero sentire i loro discorsi in difesa del Cino. Bastava questo per finire nelle grane.
Pochi amici avevano il coraggio di andare a trovare Zoboli nella torre, per regalargli qualcosa da mangiare, per aggiornarlo su quello che succedeva a Nonantola e nel mondo. I fascisti controllavano tutti questi movimenti. E pare che ogni tanto anche loro entrassero nel suo stanzone per sbeffeggiarlo e malmenarlo.
Mio padre, che era campanaro alla Madonna della Rovere, ogni anno aveva il compito di andare alla “cerca” per la festa della Madonna. Doveva raccogliere e registrare le offerte in uova, latte, vino, noci che i contadini donavano alla chiesa. Bottiglie e ricavato della vendita servivano per organizzare la festa. Non so se fosse vero, ma mio padre diceva alcune offerte venivano date per sostenere l’esilio del Cino e lui stesso si preoccupava di recapitargliele.
Ormai anziano (era nato nel 1865) e provato dalle dure condizioni di vita dentro la torre, alla fine degli anni Trenta il Cino viene ricoverato all’ospedale di Modena per problemi di stomaco e di cuore. Pare sia stata l’unica volta in cui uscì dalla torre. Una scena epica riportata dalle testimonianze di allora vede il Cino che, una volta dimesso dall’ospedale, scende dalla corriera proveniente da Modena – allora si fermava nella piazza del seminario – e mentre si incammina malfermo e ingobbito lungo via Roma per rientrare nella torre, viene coperto di insulti e di sputi dai ragazzini aizzati dai gerarchi fascisti. Non vivrà a lungo. Pochi anni o forse pochi mesi dopo, nel luglio del 1940, quando l’Italia è appena entrata in guerra, Eliseo Zoboli muore nel suo eremo nel cuore del paese, nascosto allo sguardo, ma probabilmente nel pensiero di molti, ammiratori o nemici che fossero.
Abbiamo raccolto il racconto di Geppe sul “Cino Zobel” nella sua casa di via Rebecchi il 6 marzo 2022. Una storia che sembra arrivare da un altro evo ma che, come suggerisce Geppe, ha ancora molto da dire ai sindacalisti e ai braccianti di oggi (per questo Yuliya Medvid l’ha tradotta e letta in ucraino e Hardeep Kaur in punjabi).