Illustrazione di Prince Kofi Sackey

Il cambiamento non mi fa più paura

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Da qualche anno ho definitivamente cambiato pagina, forse anche perché ho una figlia di 13 anni che rifiuta sia il farsi che l’inglese e parla solo italiano. Ha un nome afghano, Shiama, e un cognome modenese, Paganelli. Shiama è il nome di mia sorella e l’ho sempre trovato bellissimo. Mia sorella vive in Australia, allora un giorno le ho detto: visto che sei dall’altra parte del mondo, non ti dispiace vero se chiamo mia figlia come te? Shiama viene dalla parola afghana shaima, che significa bellezza e che mio padre, quando si è trattato di dare il nome a mia sorella, ha trasformato in Shiama. A mio padre gli è sempre piaciuto trasformare i nomi. Io ad esempio mi chiamo Diana, ma in realtà il mio nome è Diono, che viene dalla parola farsi Dunia, “il mondo”, e che mio padre ha cambiato in Diono. Quando ho cominciato a vivere in altri paesi, Diono si è trasformato in Diana.

Sono in Italia per amore: ho conosciuto mio marito in Australia e lui mi ha convinto a venire qua. Vivo a Modena dal 2003, prima solo per qualche mese all’anno perché volevo finire gli studi, poi mi sono trasferita definitivamente. Allora abitavo a Sydney dove ho trascorso la mia adolescenza e dove mi sono laureata in un corso equivalente a “gestione delle risorse umane e counseling”.

Sono nata nel 1978 a Kabul, in Afghanistan, dove ho trascorso tutta la mia infanzia, fino a quando, a circa dieci anni, mi sono trasferita con la famiglia in India, a Nuova Delhi. In India eravamo rifugiati e non avevamo la disponibilità economica per andare in scuole private dove avremmo potuto imparare bene hindi e inglese. Vengo da una famiglia molto numerosa: siamo cinque sorelle e due fratelli, tutti nati a Kabul. Più mio padre e mia madre per un totale di nove persone.

In India a noi bambini e ragazzi l’ACNUR dava la possibilità di frequentare una scuola statale, molto diversa dalla scuola pubblica cui siamo abituati in Italia, sia per la struttura sia per l’organizzazione: non c’era un vero e proprio insegnante e noi eravamo in una classe di bambini veramente molto piccoli, probabilmente in età da materna. Nessuno ci insegnava né l’hindi, né l’inglese. Dopo un po’ abbiamo smesso di frequentare la scuola che era comunque a pagamento. Vivevamo in nove in una casa piccola, con una sola stanza e lì passavamo la maggior parte del nostro tempo: avevamo una tivù piccolina che guardavamo dal mattino alla sera, giocavamo dentro la stanza o sul balcone. In questo modo sono trascorsi i nostri quattro anni in India, chiusi in casa e senza andare a scuola, una situazione terribile.
Finalmente siamo riusciti ad andare in Australia e, da non credente, ringrazio Dio di averci fatto capitare proprio lì perché, essendo l’Australia un paese multiculturale, ha un ottimo sistema di accoglienza: non è facile entrare come rifugiato politico, ma chi viene accettato riceve risorse e strumenti per ambientarsi, studiare e costruirsi una vita stabile. Non so dove sarebbe oggi la mia famiglia se non fosse stata accolta in Australia: tutti noi fratelli abbiamo studiato e cinque di noi si sono laureati. È stato molto importante per tutti fare il percorso scolastico, soprattutto per noi sorelle: indipendentemente dalle difficoltà precedenti, per una ragazza che si trova in un paese straniero non è per nulla semplice trovare un proprio spazio.

Parlare un’altra lingua significa essere un’altra persona. Noi all’inizio non avevamo un accento inglese perché non conoscevamo la lingua e questo pesava nelle relazioni con gli altri. Sono molte le persone a cui siamo riconoscenti, persone che, in modi diversi, ci hanno aiutati ad attraversare quella fase difficile e a farlo crescendo, nonostante le difficoltà. Non posso dire la stessa cosa del sistema d’accoglienza italiano: è molto difficile integrarsi in un paese diverso dal proprio se lo stato non crea le condizioni strutturali per supportare l’ambientamento e l’apprendimento della lingua.

La discriminazione l’ho conosciuta anche a Sydney: andavo in una scuola in cui gli studenti erano tutti biondi e semplicemente per il fatto che io fossi mora venivo trattata diversamente. Ma c’erano moltissimi insegnanti consapevoli dei meccanismi di discriminazione e capaci di supportarti. Lavoravano con noi perché ci formassimo gli anticorpi necessari a reagire alle piccole o grandi forme di esclusione. Certo, i problemi e le difficoltà non finiscono lì, ma fornire ai ragazzi immigrati e ai loro familiari le risorse per affrontare il nuovo contesto, i conflitti e le contraddizioni che nasconde, è fondamentale.

Quando ero bambina, Kabul era una città in cui le donne, e mia madre era tra quelle, potevano girare con i capelli scoperti, vestirsi con gonne corte, indossare indumenti senza maniche e andare dalla parrucchiera. Nelle aree di provincia le cose erano diverse, la vita delle donne era sottoposta a regole molto più rigide a causa dell’interpretazione maschilista della religione musulmana. Il 1978, l’anno in cui sono nata, è fondamentale per il mio paese perché segna l’arrivo dei sovietici a Kabul per sostenere la neonata Repubblica democratica dell’Afghanistan e combattere contro i mujahedin, i guerriglieri islamici delle popolazioni rurali, e indirettamente contro gli americani che li sostenevano.

Anni ’70, ragazzi di Kabul a passeggio in uno dei mercati della città

Il 1978 ha segnato una svolta: avevamo la libertà, ma non la pace e la guerra è proseguita anche dopo che i sovietici hanno lasciato il paese, in un’estenuante guerra civile che ha distrutto il paese e che dura tutt’ora. Non possiamo negare né dimenticare che gli americani hanno continuato a dare le armi ai miliziani se no come avrebbero potuto continuare a combattere contro l’esercito sovietico?

Ogni giorno venivano lanciati dei missili che cadevano dove capitava: scuole, case, uffici, parlamento… Ci eravamo quasi abituati a questa situazione, potrei dire che rappresentasse la normalità, almeno per noi bambini. Mio padre era un ufficiale abbastanza importante, il braccio sinistro del presidente dell’Afghanistan, Najibullah, indossava una divisa militare piena di mostrine e medaglie. Faceva parte del governo in carica e non aveva intenzione di lasciare il paese. Tante volte mia sorella e mia madre hanno provato a convincere papà a lasciare il paese perché la situazione stava peggiorando di giorno in giorno, ma lui insisteva che dovessimo rimanere là, a condividere la sorte di tutti gli afghani. Fino al giorno in cui, facendo parte del governo, è venuto a sapere anticipatamente che era imminente l’attacco dei talebani. Quello è stato il punto di non ritorno, il momento che lo ha fatto decidere per la fuga. Ha fatto subito i nostri documenti, ha comprato dei biglietti aerei e ha mandato me, mia madre e i miei fratelli in India, ufficialmente per turismo. Noi siamo partiti e lui è rimasto. In quanto ufficiale del governo, non era facile lasciare il paese. Dopo poco più di quattro mesi sono arrivati i talebani e hanno preso il potere. Nel frattempo mio padre aveva preparato la fuga via terra. Noi siamo usciti in maniera abbastanza “civile”, lui ha dovuto fuggire di nascosto, oltrepassando i confini via terra. Se la memoria non mi inganna, ci ha raggiunti dopo sei, sette mesi che eravamo in India. Dopo poco hanno ammazzato il presidente Najibullah insieme a suo fratello, torturandolo davanti alla gente e impiccandolo pubblicamente. È molto probabile che se papà fosse rimasto avrebbe subito la stessa sorte.

Poi sono successe altre cose che non sto qui a raccontare e solo io e i miei fratelli, da orfani, siamo andati in Australia, grazie a uno zio che abitava là da trent’anni e ci ha “sponsorizzati”. Per nove volte abbiamo chiesto l’autorizzazione a entrare prima di essere finalmente accettati. Ricordo ancora nitidamente le emozioni dell’attesa: sapevamo dai racconti di chi aveva ottenuto il visto che, se venivi accettato dall’Australia, ti arrivava una busta gigante. Per molto tempo invece a noi arrivava sempre e solo una busta normale con dentro una lettera. Appena la vedevamo capivamo immediatamente che la nostra domanda era stata rigettata. Finché anche per noi è arrivato il giorno in cui abbiamo ricevuto la busta gigante e siamo partiti come rifugiati per l’Australia.

Non sono mai più tornata in Afghanistan: avevo l’incubo ricorrente, anche dopo la partenza, che venissimo catturati e violentati dai talebani. Se anche mi dicessero che tutto è di nuovo normale, cosa ben lontana dal verificarsi, non riuscirei a visitare il mio paese, perché ho ‘sta paura dentro la testa che non mi lascia.
Quando penso all’Afghanistan mi viene solo tristezza. Intere generazioni hanno dovuto lasciare il paese. Molti di coloro che si sono trasferiti all’estero hanno fatto carriera: ci sono medici, scrittori, musicisti afghani ovunque nel mondo. Però perché non hanno potuto realizzarsi nel proprio paese? E poi chissà quanti non ce l’hanno fatta e hanno vivacchiato o sono “caduti” una volta arrivati in un paese straniero. Per questo se penso all’Afghanistan mi viene solo la tristezza.

La storia del mio paese non è molto conosciuta, invece, vuoi o non vuoi, il mondo occidentale dovrebbe fare i conti con quello che è successo in Afghanistan. E questo vale per moltissimi altri paesi sparsi nel mondo. Paesi che potrebbero avere un tenore di vita più che dignitoso e che invece soffrono e vivono in povertà perché gli stati del mondo ricco, America e Russia in primis, preferiscono governi corrotti che consentano loro di entrare e uscire quando vogliono senza chiedere a nessuno il permesso di prendere quello che non gli appartiene. Questo è il metodo. Semplice. A chi è mai interessato davvero dell’Afghanistan, della sua indipendenza, del suo benessere?

Tecnicamente la mia lingua madre è il farsi. Sparlucchio l’hindi per aver vissuto quattro anni in India, ma non l’ho mai imparato bene. Essendo arrivata in Australia da ragazza, mi viene da dire che sono madrelingua inglese più che farsi anche perché penso in inglese e con le mie sorelle parlo in inglese. Forse dipende anche dal fatto che non ho più i genitori. Sono loro che ti tengono legata alla lingua e alle abitudini d’origine.

Quando sono arrivata in Italia è stata dura: se una ragazza a vent’anni si trasferisse da una piccola città come Nonantola a una grande città come New York sarebbe affascinata da tutto e troverebbe l’avventura entusiasmante. Ma immaginate me, abituata a vivere in una metropoli come Sydney, dover vivere in una città di provincia come Modena… Quando sono arrivata mi sembrava che a Modena non ci fosse niente. Alle 7.30 del pomeriggio in via Moreali era tutto chiuso e immerso nel buio più totale. Quando uscivo con mio marito e i suoi amici, tutti parlavano in italiano e io non capivo niente. Vedevo che tutti ridevano, io lo guardavo con aria interrogativa e lui diceva: te lo spiego dopo. Allora mi sono detta: o impari in fretta l’italiano, oppure ritorni in Australia. Ho deciso di sfruttare il fatto che alcune parole italiane sono simili all’inglese e quindi mi sarei concentrata sul senso generale, senza cercare di capire tutte le parti del discorso. Ho iniziato a skippare le parole e a concentrarmi solo su quelle che capivo, cercando di dare un senso complessivo alla frase. Fatto sta che dopo tre mesi ho incominciato a comunicare in italiano. E alla fine sono riuscita a catturare la lingua.

Poi ho dovuto risolvere il problema del lavoro. Possibile che da laureata trovassi solo da lavorare in nero, come insegnante di inglese? Non riuscivo ad accettare questa cosa, ne ho sofferto molto. Per fortuna c’era Davide, che è molto paziente e sa incassare bene i miei furori. In certi periodi tornavo in Australia, a recuperare speranze e motivazioni. Ora lavoro per la Fiat: è da 13 anni che ricopro diversi ruoli nell’azienda e il mio lavoro mi ha portato a conoscere bene l’Europa. Dato che ancora non ho la cittadinanza italiana, sul mio passaporto australiano ho visti e timbri di tutti i paesi in cui ho viaggiato, è bellissimo avere traccia dei miei viaggi.

Mi ci è voluto un po’ di tempo per decidere di vivere stabilmente qua, almeno sette o otto anni. Quando sono venuta in Italia mi dicevo: vediamo come va. Era una nuova esperienza e non la pensavo come una scelta definitiva. Non era la prima volta e forse nemmeno l’ultima che cambiavo casa e paese. L’unica condizione è che ci sia pace, per il resto tutti i posti nuovi esercitano su di me fascino non resistenza. Mi sento una cittadina del mondo, una easy to adapt, una persona che si ambienta facilmente. Il cambiamento non mi fa più paura.

L’illustrazione in apertura è di Prince Kofi Sackey, quella che chiude l’articolo, di Hanane Salek. Entrambe sono il frutto di un laboratorio di serigrafia condotto alla Scuola Frisoun di Nonantola da Else edizioni nel febbraio del 2022.

Agnieszka Pawula

Agnieszka Pawula, polacca, da 26 anni in Italia. Con una grande passione per la fotografia e i viaggi perché proprio questi sono la migliore scuola della vita. Le piace osservare il mondo e la gente.

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