La vita corre sul fiume

13 Agosto 2024
Ponte sul fiume Ukrina

Vivo a Nonantola da dieci anni. Al momento del mio trasferimento ero già un adulto formato. Si dice che persone della mia età si adattino più difficilmente a nuovi contesti di vita. Ho incontrato molti nuovi arrivati che confermano questa ipotesi, ma anche tanti nati qui che lascerebbero questo luogo domani. Io mi sono adattato sorprendentemente bene. Amo la lingua, la cucina locale e la cultura, e ho fatto diverse amicizie. Ma c’è una cosa che non ho potuto portare con me e che mi manca molto. E alla quale penso spesso con nostalgia.


Il suono del fiume in piena che mi svegliava dopo una lunga notte di pioggia annunciava un altro giorno emozionante. Dovevo solo allontanarmi di nascosto da casa. Non scappavo perché mia madre mi avrebbe rimproverato per il pericolo e mi avrebbe proibito di andare, ma per sfuggire ai lavori che in campagna diventano obbligatori fin dall’infanzia e che quel giorno avrebbero potuto impedirmi di perseguire i miei propositi. Ma mentre seguivo i ragazzi più grandi verso il centro della vecchia passerella di legno, che il fiume aveva già portato via più volte, avrei voluto che qualcuno mi proibisse di essere lì. Quel senso di colpa dovuto alla paura durava solo finché, aggrappato alle corde allentate, danzavo insieme alla costruzione che oscillava pericolosamente.

Il resto della giornata lo trascorrevo osservando il fiume portare via pezzi di ponti, interi raccolti, covoni di fieno, animali domestici morti; una volta anche una cuccia con un cane vivo legato sopra. Guardavo la disgrazia che si svolgeva davanti ai miei occhi curiosi senza un briciolo di empatia, con un enorme entusiasmo e quasi come un esperto: cercavo di determinare la forza della corrente principale, seguivo il livello dell’acqua, prevedendo l’estensione dei depositi alluvionali e stimando i danni futuri. Ogni nuova tesi o conclusione doveva essere difesa in un’accesa discussione con gli altri osservatori.

Esondazione del fiume

Il fiume portava via tutto, lasciando dietro di sé danni e desolazione, ma era sempre seguito da una forza inarrestabile della natura che rinnovava e rivitalizzava tutto. In estate, lo stesso fiume era calmo, tranquillo e pieno di vita. Solo le rive ripide e i tronchi incastrati in alcuni punti rivelavano l’altra faccia della sua natura. La vita intorno a questi nuovi luoghi era insolitamente attiva e ricca. Sotto gli alberi incastrati nella sabbia si nascondevano i migliori esemplari di cavedano, e sulla superficie sotto le nuove rive, banchi di pesci affamati aspettavano gli insetti che cadevano attraverso l’erba cresciuta, inclinata sotto il proprio peso e pendente sull’acqua. Sul fondo, tra le erbe acquatiche, trovavano rifugio i gamberi di fiume. Di giorno uscivano allo scoperto con cautela, muovendosi lentamente con le chele alzate, e fuggivano velocemente all’indietro in caso di pericolo, sollevando il fango con i colpi della coda e trascinando le chele dietro di sé. E il pericolo era sempre in agguato, nell’acqua e fuori. I serpenti erano i predatori eterni di cui tutti avevano paura: pesci, gamberi, noi bambini e adulti. Gli adulti più di tutti! Erano parte della vita quotidiana nel mio villaggio e non erano mai solo creature della natura; erano profondamente radicati nella cultura locale, nelle tradizioni e nelle credenze popolari.

Il mio graduale legame con questo ecosistema fluviale avrebbe plasmato il mio rapporto con gli esseri viventi, l’ecologia e la vita nel suo insieme. Al mattino, mi infilavo tra l’erba bagnata di rugiada per avvicinarmi il più possibile alla riva e lanciare l’amo imitando la caduta di una cavalletta nell’acqua. Il primo tentativo rappresentava l’unica possibilità di cattura perché i banchi di pesci sparivano immediatamente sotto la riva o tra i rami degli alberi per qualsiasi attività sospetta. Dopo, dovevo cambiare esca, mettere una piccola rana, una coda di gambero o una piccola alborella, appendere un piombo e lanciare il più vicino possibile al nascondiglio in cui erano fuggiti. Questo processo doveva essere eseguito con precisione perché c’era un alto rischio che l’amo si impigliasse e rimanesse sui rami secchi, sopra il fiume o sprofondato nell’acqua. Spesso succedeva che l’esca venisse presa da un gambero che la trascinava nella tana, impigliandola tra le radici. Allo stesso modo, i serpenti che inghiottivano l’esca venivano agganciati dall’amo triplo, quindi l’unico modo per salvare l’amo era decapitare il serpente. Nel periodo post-bellico e nella povertà che ogni guerra porta con sé, perdere un amo significava la fine della pesca per un certo periodo. Per evitarlo, spesso dovevo entrare nell’acqua fredda e torbida, nuotare e immergermi alla ricerca dell’amo perduto.

Nella morsa del gelo

Dopo uno di questi episodi in cui rimasi senza amo, provai a farne uno da solo. Presi un pezzo di filo sottile e realizzai un amo di diverse dimensioni nel modo più preciso possibile. Sembrava funzionare. Andai al fiume e trascorsi mezza giornata tentando di ingannare almeno un pesce. Appena iniziai a sentire la fame e la stanchezza, incontrai un vicino anziano che vedevo spesso e che era un appassionato pescatore. Dopo una breve conversazione di rito, rovistò nella sua borsa da pesca, frugò un paio di volte e mi porse un amo tra le dita. Considero ancora oggi quel regalo uno dei più cari che abbia mai ricevuto. Fame e stanchezza sparirono all’istante.

Il bastone da pesca lo facevo con il nocciolo. Solo pochi pescatori adulti e professionali portavano vere canne da pesca e borse. Le borse erano per lo più militari, del periodo dell’Esercito Popolare Jugoslavo, adattate per essere portate a tracolla. Il nocciolo veniva usato perché era leggero e dritto. Si tagliava lungo da un metro a un metro e mezzo. All’estremità più spessa si lasciava una parte per la presa, poi si inchiodavano due chiodi distanti circa venti centimetri e si avvolgeva il filo intorno. Alcuni anelli guida erano fatti con filo di rame. Inizialmente infilavo i pesci catturati su uno ramo di legno piegato, facendolo passare prima attraverso le branchie e poi attraverso la bocca. Quando ottenni la mia borsa militare, vi sistemai vari contenitori per vermi, cavallette, larve… Ero un appassionato collezionista di flaconi di sciroppo per la tosse di vari tipi e dimensioni, scatole tonde, bianche e larghe di creme per bambini e cilindri lunghi di multivitaminici. Ancora oggi mi dispiace buttare via una di queste scatole.

Non ricordo quanti anni avevo quando imparai a nuotare. So che fu prima di imparare a contare e avere una concezione del tempo. Imparare a nuotare è in realtà uno dei miei primi ricordi d’infanzia. I punti del fiume dove si faceva il bagno avevano sempre un lato coperto di sabbia da cui la profondità aumentava gradualmente verso l’altra sponda fino ad arrivare a diversi metri. Per prima cosa imparai ad andare sott’acqua. Imparai rapidamente e senza particolari difficoltà, ma poi seguì l’impresa audace e pericolosa di nuotare fino all’altra riva. Si trattava di una manovra in cui ogni errore poteva essere fatale. L’immersione verso l’altro lato durava finché non sentivo sotto le dita una pietra o un albero abbastanza robusto da tirarmi su. Dopo aver imparato a nuotare, iniziai a esplorare territori fino ad allora inesplorati e nulla poteva impedirmi di diventare il padrone assoluto del fiume. Con gli amici tagliavamo liane, intrecciavamo trappole e con esse catturavamo pesci e gamberi nelle profondità sotto le rive. Costruivamo grandi dighe, piazzavamo ami tripli di notte e la mattina presto, prima che il pesce si svegliasse, andavamo a tirarli fuori. Il pesce catturato lo arrostivamo o lo portavamo a casa. Dopo uno di questi barbecue in cui probabilmente mangiammo gamberi poco cotti, io e due amici prendemmo un’intossicazione piuttosto grave. Tornammo al fiume solo dopo alcuni giorni.

Gambero d’acqua dolce

Gli incontri con i serpenti nell’acqua erano frequenti, ma mantenevamo la distanza evitando qualsiasi contatto possibile. Tuttavia, ciò era possibile solo fino a quando il fiume non diventava troppo piccolo per due predatori. L’incontro rappresentava una sorta di rito di iniziazione che includeva affrontare e catturare il serpente con le mani e poi rilasciarlo in natura. Ciò che per i miei coetanei di città era fumare la prima sigaretta, uno spinello, il bacio di una ragazza o la prima ubriacatura, per me era catturare un serpente. Sebbene nel fiume vi sia una specie di biscia d’acqua non velenosa, le rocce intorno al fiume ospitano anche altre specie della famiglia delle vipere, che sono velenose. Spesso accadeva che, cadendo dagli alberi o in altro modo, nel fiume si trovassero serpenti che non erano necessariamente acquatici, ma allo stesso modo quelli acquatici si trovavano sulla terraferma lungo la riva. Per tutto ciò, ogni serpente della famiglia delle vipere era ugualmente pericoloso e trattato allo stesso modo. La Bosnia è anche l’habitat del serpente più velenoso d’Europa, la vipera dal corno, che noi chiamiamo poskok (saltatore) per la credenza che possa saltare, anche se non è del tutto vero. Questa specie abita la penisola balcanica ed è caratterizzata da un corno pronunciato sulla testa. Il suo veleno agisce rapidamente distruggendo i tessuti provocando grande dolore ed è generalmente mortale se non si riceve l’antidoto in tempo. L’avrei incontrata molti anni dopo…

Per catturare un serpente si usa un bastone biforcuto lungo circa un metro. Si preme il serpente un po’ sotto la testa, poi lo si afferra con due dita subito sotto il bastone. L’altra mano serve per evitare che il serpente si avvolga intorno al braccio. Il processo può sembrare semplice, ma non lo è e pochi osano farlo.

Crescere in campagna e lungo il fiume mi ha permesso di vedere tutto ciò che in città rimane nascosto, facendomi vivere pienamente ogni esperienza davanti ai miei occhi curiosi e accompagnandomi nella vita adulta, formandomi come persona. La natura è bella, imprevedibile e spietata; contemporaneamente nemica e alleata dei contadini.

Quando, più di vent’anni fa, l’intera popolazione di gamberi scomparve improvvisamente dal fiume, nel villaggio si avvertì un certo senso di tristezza, ma la vita andò avanti come sempre. Si pensava a un avvelenamento, poiché spesso nel fiume finiva ogni tipo di rifiuto. Poi le alluvioni divennero sempre più imprevedibili, il fiume iniziò a cambiare corso, a scomparire nella sabbia e a diventare sempre più basso. Mentre aspettavamo il ritorno dei gamberi, rimanemmo senza pesci grossi e infine senza il fiume che conoscevamo. Oggi nel villaggio non ci sono né bambini né quel vecchio fiume pieno di vita che avrebbe potuto offrire loro ciò che ha dato a me. Purtroppo, i cambiamenti climatici hanno modificato la natura del nostro fiume e del suo ambiente molto prima che fossimo consapevoli delle loro conseguenze. Ora è chiaro che quei primi segnali erano un avvertimento di cambiamenti molto più seri che devono ancora arrivare.

(Tutte le immagini del fiume Ukrina presenti nell’articolo sono dell’autore.)

Il corso del fiume tra le colline di Čečava

Slobodan Miletić

È ingegnere informatico e membro dell'associazione Giunchiglia-11 Aps. Vive a Nonantola dal 2013, dove gestisce una piccola agenzia web e un portale del villaggio bosniaco di Čečava, da cui proviene. È ex studente della Scuola Frisoun di Nonantola e fa parte della redazione di 'Touki Bouki'. Appassionato di tecnologie e curioso verso molti altri ambiti.

1 Comments Leave a Reply

  1. Grazie Slobodan,ricordi indelebeli toccanti, anche io ho vissuto in campagna, più o meno così,e con la tua narrazione , mi hai regalato un rivissuto impregnato di emozioni. Grazie.Un abbraccio. Carlo M.

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