Il massimo dell’insofferenza nei confronti di chi lo faceva arrabbiare, lui che non s’arrabbiava mai, Hakeem lo manifestava dicendo: parla, parla, parla… con una voce nasale che rendeva il commento ancora più ironico e flemmatico di quando già non fosse nelle sue intenzioni.
Oggi forse direbbe la stessa cosa anche di noi, che siamo qui riuniti per dargli l’ultimo saluto. Ma qualche parola bisogna pur dirla. Non tanto per Hakeem, che non amava i sentimentalismi, ma per noi e per Nonantola: per noi maestri della Scuola Frisoun è spesso motivo di dispiacere e a volte di vera e propria angoscia pensare alle storie di tante persone che, in arrivo dai quattro angoli della terra, transitano da Nonantola o che a Nonantola si fermano a vivere – un anno, dieci anni, pochi mesi o che magari ne diventano cittadini – ma che poi se ne vanno senza lasciare nessuna traccia di sé. Sia chiaro, questo capita a tutti. Ma ci sono storie che scoloriscono più in fretta di altre.
Ora non vogliamo riassumere la vita di Hakeem, che peraltro non conosciamo così bene come alcuni degli amici e dei colleghi presenti oggi. Mettiamo solo insieme alcuni dei pezzi, forse nemmeno i più importanti, che abbiamo raccolto in questi anni dalla voce di Hakeem e da quella delle persone che l’hanno frequentato.
L’aspetto che ci teniamo a sottolineare in partenza è che nella vita di Hakeem le cose brutte e ingiuste che gli sono capitate, e sono state tante, sono mescolate a cose belle e a incontri speciali.
Hakeem Omotoyosi diceva di essere nato a Lagos, in Nigeria, nel febbraio dell’86 e quindi è morto che aveva 37 anni, anche se la sua vita era andata a velocità doppia.
Lavorava come autista quando nel 2007 ha lasciato la Nigeria. Aveva poco più di vent’anni e la famiglia era tutta sparpagliata per il paese: il padre viveva a Kano, la madre e alcuni fratelli ad Abuja e lui viveva e lavorava a Lagos.
Non è mai facile isolare le ragioni di un viaggio come il suo. Lui diceva che si era messo in cammino a causa delle persecuzioni politiche di matrice etnica subite dal padre, un militante yoruba. La legge, irrazionale, che governa il diritto d’asilo in Italia obbliga persone come Hakeem a dare conto della loro partenza dal paese d’origine non da quello da cui scappano per venire in Italia, come nel caso di Hakeem la Libia, paese in cui viveva da anni e da cui non aveva nessuna intenzione di partire, non fosse stato per lo scoppio della guerra all’inizio del 2011.
Fatto sta che Hakeem era poco più che ventenne quando ha lasciato la Nigeria. Non aveva una meta precisa, ha seguito un fiume in piena, un flusso di uomini e donne che proprio in quel periodo iniziava a prendere una forma precisa. Negli anni successivi ne abbiamo sentite tante di storie di viaggio come la sua. Storie i cui snodi e i cui meccanismi si ripetono uguali. Tanto uguali da farne ormai un fenomeno di massa con caratteristiche ben definite: i paesi e le città attraversati, la durata dei viaggi, le estorsioni e le violenze subite dalle persone, le ecatombi in mare e nel deserto, le organizzazioni criminali che intorno a questo nuovo fenomeno hanno ristrutturato le loro reti, le politiche migratorie europee, che a queste reti prestano inconsapevolmente il fianco.
Come molti anche Hakeem ha preso la via del Niger, la porta da cui bisogna passare per sperare di riuscire ad attraversare il Sahara. In Niger c’è rimasto per qualche mese, lavorando come camionista e come raccoglitore di legna per pagarsi la traversata del deserto. Quando ha messo insieme abbastanza soldi è ripartito per la Libia, dove invece è rimasto cinque anni e da cui ha sempre detto, non fosse stato per la guerra scatenata da America, Francia e Inghilterra contro Gheddafi, non sarebbe mai andato via. Non che la vita fosse semplice, ma un lavoro ce l’aveva e riusciva a campare decentemente e a mandare un po’ di denaro alla famiglia.
Appena arrivato in Libia è stato preso dalla polizia. Ma di quei primi momenti, forse a causa del pericolo che si era lasciato alle spalle, non aveva un brutto ricordo. Quando è stato fermato era spossato, aveva i piedi gonfi, era una settimana che lui e la decina di persone che erano con lui non mangiavano decentemente. E ci ha raccontato che la polizia (o quella che lui ha scambiato per tale) ha offerto loro un piatto di cuscus e del succo di frutta. Un litro di succo che Hakeem ha bevuto tutto d’un sorso. In Libia è vissuto a Qatrun, Sabah, Tripoli e negli ultimi giorni, prima di partire per l’Italia, nel campo profughi di Tegiura.
In Libia Hakeem ha ricominciato tutto da zero, dalla strada. Non aveva nulla, se non i vestiti che portava addosso. E in strada ha fatto uno dei tanti incontri determinanti della sua vita: un suo connazionale, di nome Stephen, che lavorava da anni in un ristorante di Tripoli e che gli portava gli avanzi della cucina e dei clienti. Lui si vergognava a elemosinare il cibo, ma Stephen glielo portava quasi tutti i giorni, anche senza che Hakeem glielo chiedesse.
In quel periodo, un altro episodio che ha raccontato e che ci è rimasto impresso è che a un certo punto ha incrociato in strada un uomo che vendeva delle tende, ne ha osservato per un po’ gli spostamenti e appena ne ha avuta l’occasione Hakeem gli ha rubato una tenda. Scherzando diceva che mentre la rubava chiedeva perdono a Dio. Poi, quando le cose hanno iniziato a girare meglio e ha trovato una stanza in affitto, ha regalato la tenda a un connazionale arrivato dopo di lui che come lui dormiva in mezzo alla strada.
Nel febbraio del 2011 iniziano a cadere le bombe della Nato su Tripoli. Lui e molti altri stranieri subsahariani vengono portati in campi di concentramento. Quando una bomba cade vicino al campo di Tegiura, dove si trovava in quel momento, viene caricato a forza su un barcone e messo in mare.
Dopo un’avaria al motore durata due lunghissimi giorni, arriva in Italia nel maggio del 2011. Sta pochi giorni a Lampedusa e poi viene trasferito a Bologna.
Noi abbiamo conosciuto Hakeem nell’estate del 2012, per una scuola estiva che l’Unione ci aveva chiesto di organizzare per lui e per gli altri dieci richiedenti asilo nigeriani accolti a Nonantola. Una scuola che era fatta di lezioni di italiano, ma anche di incontri con la Questura, con il Centro per l’impiego, l’Ufficio delle entrate, i volontari del Pizza Fest e un paio di incontri informativi con il nostro amico Fausto Stocco. Incontri che cercavamo di riportare in aula per lavorarci sul piano linguistico.
Nel giugno del 2013 un altro fondamentale incontro della sua vita: quello con il lavoro, con la Special Formaggi e con alcune delle persone che alla Special lavoravano. Grazie al lavoro, ad Andrea Zambelli, a Patrizia Salmi e alle sue risorse personali, Hakeem iniziò un processo di radicamento (concetto molto più bello di quello di “integrazione”) che non è garantito da nessun passaporto o permesso di soggiorno.
Nel 2019, un piccolo incidente in bici mentre si recava al lavoro, i raggi di controllo che rivelano una macchia di 2cm e mezzo in un polmone, il radiologo che suggerisce di fare in fretta ulteriori approfondimenti. Suggerimento che rimane inascoltato…
Hakeem ha lasciato dietro di sé molti affetti che tratterranno il suo ricordo ancora per un po’ e che magari trasformeranno i ricordi in qualche insegnamento utile a questo territorio. Nel dicembre del 2012 raccontò una parte della sua storia, insieme a due ragazzi che come lui erano stati accolti a Nonantola a seguito dei rivolgimenti del Nord Africa, Jelili e Osas, in un incontro pubblico al Teatro Troisi che si intitolava “Approdi e naufragi”. Alla Scuola Frisoun, che deve il suo nome a lui e a quei ragazzi nigeriani, lo aiutammo a tradurre in italiano la sua testimonianza. In uno dei passaggi del suo intervento Hakeem aveva scritto: La vita è così, non c’è possibilità di scelta, vivere significa rischiare ogni volta qualcosa e cercare delle alternative a quello che non va. C’è qualcosa che ti spinge ad andare avanti qualsiasi cosa sia successa prima.