Chi scrive lavora in una comunità educativa per minori temporaneamente privi di genitori o altri adulti di riferimento che possano provvedere ai loro bisogni. Tra questi, ci sono anche diversi “minori stranieri non accompagnati” che spesso arrivano in Italia affrontando viaggi lunghi e avventurosi.
Quella che segue è la trascrizione del racconto del viaggio fino all’Italia di uno di loro, proveniente dal distretto di Gujrat, in Pakistan.
Il ragazzo ha scelto di presentarsi come Chand. Nella lingua Urdu, Chand significa “Luna” ed è un nome che sua madre ha scelto per rivolgersi a lui, perché suona bene.
Le illustrazioni, che rispecchiano bene lo spirito con cui Chand ha affrontato e raccontato il suo viaggio, sono di Davide Reviati, tratte da Stig Dagerman, Ho remato per un lord, Else edizioni. (Alessandro Tonini)
Chand, sai dirmi quando hai deciso di partire?
Oggi ho 17 anni. Sono rimasto nel mio villaggio in Pakistan fino a 12 anni e allora ho deciso di partire. Sono il più giovane di tre sorelle e tre fratelli.
Per quali motivi hai preso la decisione di lasciare il Pakistan?
Già a 9 anni avevo smesso di frequentare la scuola. Ho lavorato per un anno in un’azienda agricola. Non mi piaceva e inoltre non mi pagavano perché stavo imparando il mestiere, ero apprendista. Poi ho trovato un altro lavoro in officina. Aiutavo a cambiare le gomme di automobili e motociclette. Questo lavoro mi piaceva di più, ed era pagato.
Poi, quando avevo quasi 12 anni alcuni amici coetanei mi hanno invitato a parlare e abbiamo discusso della possibilità di lasciare il nostro villaggio e il Pakistan. Mi sono convinto ad andare con loro. Ne ho parlato anche con i miei genitori, eravamo tutti d’accordo in famiglia.
Il fatto è che nel mio paese chi ha molti soldi fa tutto quello che vuole ed è rispettato, mentre chi non ha soldi non ha rispetto, non è trattato bene. Temevo di non avere prospettive se fossi rimasto nel mio villaggio.
Raccontami allora della tua partenza.
Ho preso soltanto uno zaino e ci ho messo dentro due magliette e un chilo di ceci. Ho portato con me solo queste cose. Avevo un paio di pantaloni e scarpe leggere, da passeggio. Ho salutato solo mia madre, mio padre e la mia sorella più grande. Non ho salutato tutti perché è stato un momento triste anche se eravamo d’accordo. Era difficile dire addio. Sono partito insieme ai tre amici con cui avevo discusso del viaggio. Siamo saliti su un bus per raggiungere la città vicina e là uno del mio gruppo ha preso contatto con l’organizzatore del nostro viaggio.
Chi era questo organizzatore? E come hai viaggiato?
Abbiamo conosciuto questo tizio afgano, che ci ha portati con sé a piedi sulle montagne per due settimane. I miei amici e io ci siamo uniti a un più numeroso gruppo di giovani e di adulti che volevano attraversare il confine come noi. La guida ha sequestrato cibo, documenti e soldi a chi ne aveva. Mi ricordo che ha picchiato un ragazzo perché non poteva pagare e poi lo ha abbandonato sulle montagne.
Quando sei partito, sapevi che avresti viaggiato in queste condizioni?
Sì, sapevo già dagli amici e da internet che il viaggio era pericoloso.
Abbiamo camminato fino al confine con l’Iran e lì la polizia ci ha fermato, ci ha preso tutti i vestiti, anche le scarpe e i calzini. Siamo rimasti in mutande sulle montagne. Faceva molto freddo. Dopo alcune ore è arrivato un altro membro dell’organizzazione e ci ha dato altri vestiti. Così abbiamo potuto riprendere il viaggio. Abbiamo camminato per almeno un’altra settimana e poi c’erano delle tappe in motocicletta o in automobile. Ci dividevano in piccoli gruppi e caricavano fino a cinque persone su una moto, fino a 13 su una macchina. Un mio amico mi ha detto di aver viaggiato su una macchina con 17 persone! E così siamo arrivati in Turchia. Era una tappa molto pericolosa. Mi hanno detto che sulle montagne c’erano diversi cadaveri, anche persone uccise dalla polizia. Anche io ho visto due morti.
E poi cosa è successo in Turchia?
È arrivata di nuovo la polizia che ci ha presi e ci ha picchiati con i manganelli. Hanno rotto le braccia ad alcuni di noi e poi ci hanno portati in un grande campo dove c’erano tanti profughi.
C’erano anche donne, anziani e bambini?
Nel campo eravamo separati per sesso. Io stavo con gli uomini. C’erano delle camerate dove dormivano dieci persone insieme; non c’erano letti. Chi aveva documenti veniva rimandato in Pakistan o in Afghanistan, ma io non avevo documenti e sono rimasto lì per due mesi.
Avevi deciso di non portare i documenti per questo motivo?
Sì, per non farmi rimandare a casa dalla polizia. Ma avevo anche paura di restare nel campo. C’erano ragazzi che erano lì da anni. Ma poi mi hanno spostato in una struttura più piccola, una comunità dove c’erano educatori che mi picchiavano se li facevo arrabbiare. Sono rimasto lì per altri due mesi, poi mi hanno fatto dei documenti per uscire dalla Turchia. La polizia che ci aveva fermati alla frontiera, ci aveva rubato i telefoni cellulari ma nella comunità mi hanno permesso di telefonare a mia madre e quando le ho detto dove mi trovavo lei ha saputo darmi il contatto di un amico di famiglia che viveva in Turchia. Questo pakistano mi ha ospitato per sei/sette mesi e ho lavorato insieme a lui in una fabbrica che produceva posate di metallo. Mi hanno dato un po’ di soldi e così ho potuto comprare un nuovo telefono cellulare, ho richiamato mia madre e le ho detto che non volevo fermarmi in Turchia, e che secondo me valeva la pena andare avanti, verso l’Europa e lei ha appoggiato la mia scelta. Insieme ad altri ragazzi afgani e pakistani ho contattato un’altra organizzazione per lasciare la Turchia e arrivare in Grecia.
Con quale mezzo siete partiti?
Su una nave, piccola, d’estate. Ma la polizia greca ci ha fermati.
E cosa ha fatto la polizia?
Ci ha picchiato, ci ha preso i cellulari e ci ha rimandato indietro. In Turchia non mi sono dato per vinto. Sono tornato ospite dall’amico e ho lavorato ancora per tre mesi. Ho richiamato mia madre che mi ha spedito un po’ di soldi da aggiungere a quelli che avevo guadagnato. D’accordo con lei ho contattato un turco che da Istanbul organizzava un trasporto via nave diretto per l’Italia. Ho viaggiato per otto giorni nella stiva di una nave mercantile senza mettere il naso fuori, con un mucchio di ragazzi e giovani uomini, portando con me solo due chili di ceci, acqua e datteri. È stato un viaggio faticoso.
E sei sbarcato in Italia?
Sì, siamo arrivati a Crotone. La polizia ci ha preso.
Come si è comportata la polizia?
Ci hanno dato i vestiti e un kit di accoglienza con il sapone e lo spazzolino e hanno iniziato a identificarci. Insieme ad altri minorenni mi hanno collocato in emergenza in una struttura che ospitava anziani: erano tutti maschi e alcuni erano pazzi, non stavano bene. Io avevo ormai 13 anni e mi trovavo in quel posto con una dozzina di altri ragazzi. Non capivo perché ci trattenevano lì. Quel posto ci faceva paura. Gli altri ragazzi che erano stati collocati lì con me sono tutti scappati.
E cosa hanno fatto gli operatori della struttura quando hanno visto i ragazzi scappare?
Niente. E io sono rimasto lì, e dopo un po’ sono arrivati altri ragazzi pakistani. Mi sono detto che non avrei aspettato di vedere scappare anche tutti i nuovi arrivati e quindi insieme ad alcuni di loro ho abbandonato la struttura.
E come ti sei mosso in Italia? Non conoscevi la lingua, non avevi denaro e non ti orientavi, giusto?
Alcuni degli altri ragazzi scappati con me sapevano usare Google Maps e avevano qualche punto di riferimento, amici residenti in Italia. Ci muovevamo con i bus e con i treni, senza biglietto. Il treno era più veloce del bus ma era più facile che un controllore ti facesse scendere. In ogni caso quando ci trovavano senza biglietto, nessuno ha mai chiamato la polizia. Seguendo alcuni ragazzi sono arrivato fino a Bologna. Lì un adulto pakistano ha parlato con noi e poi ha chiamato le forze dell’ordine e ha spiegato a loro che eravamo minori stranieri non accompagnati.
E poi cos’è successo?
A quel punto sono stato collocato dai servizi sociali in diverse strutture nella provincia di Modena fino ad arrivare nella comunità dove mi trovo ora, all’età di 15 anni.
Quando ti hanno inserito in comunità e hai potuto finalmente riposare e ripensare al viaggio che avevi fatto, come ti sei sentito?
Per diverso tempo sono rimasto chiuso in me stesso. Non parlavo l’italiano. Per lo più stavo in camera, da solo, e rimuginavo sulla mia scelta. Per molto tempo non ho saputo decidere se avevo fatto bene o male a compiere questo viaggio perché non capivo dove mi trovavo e cosa ne sarebbe stato di me. Poi, piano piano, conoscendo le persone e imparando l’italiano mi sono fatto un’idea.
E adesso cosa pensi?
Penso che ho fatto bene, perché sto studiando, spero di trovare presto un buon mestiere e di sistemarmi.