Prima dell’alba

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Il fiume è più caldo all’alba, prima che il sole spunti dall’orizzonte. L’acqua è allora lenta, quasi immobile, come se si svegliasse da un sonno profondo. La nebbia, trasparente e fredda, fluttua appena sopra la superficie, nascondendo le rive e tutto ciò che si trova dietro di essa. Il silenzio è così denso che ogni rumore, anche il lieve scricchiolio dei rami o il fruscio delle foglie, riecheggia come un eco nello spazio vuoto. Tutto è tranquillo, ma in questa calma si avverte la presenza di qualcosa di invisibile, qualcosa di spettrale, come se la natura si preparasse per qualcosa che sta per arrivare. Questa sensazione, questo silenzio insolito prima dell’alba, si dissolve sotto il peso della prima luce.

Era la primavera del 1992. Avevo sei anni. Si avvicinava l’estate e con essa tutte le gioie sul fiume, e con il primo settembre il mio primo ingresso a scuola. Non ero contento di iniziare la scuola. Dal mio mondo innocente, intuivo la fine dei giochi da bambino.

L’evento che ricordo di quel periodo è la morte di mio padre.

In casa, nel mobile, c’era sempre stata una piccola foto di mio padre in uniforme militare, ma lui non c’era più. La mia famiglia e i vicini lo avevano appena seppellito, nonostante il mio rifiuto. Hanno portato la bara davanti casa, l’hanno aperta e si sono radunati intorno a lui. Il prete recitava il servizio funebre mentre le candele bruciavano velocemente nel vento. Non volevo partecipare. Hanno cercato di prendermi e portarmi più vicino, ma sono scappato. Mi sono rifugiato su una collina sopra la casa, lontano dagli sguardi, ma abbastanza vicino da vedere la processione che si allontanava lentamente verso il cimitero. Lì, su quella collina, mi sentivo separato dal mondo intero. Non piangevo, stavo lì con la sensazione di non appartenere a nessun luogo, e guardavo quella triste processione scomparire dietro le colline. In quei giorni c’era tanto caffè e zucchero in casa, portati dai vicini secondo la tradizione. Per giorni ho frugato nelle buste cercando zollette di zucchero. Ricordo ancora quel sapore. Per anni, la foto di mio padre è rimasta nel mobile. Nei miei ricordi di mio padre c’era sempre una tristezza inspiegabile e un vuoto tipico dell’infanzia.

In quegli anni di guerra, i villaggi vivevano vite separate, spesso in un silenzio insolito, durante lunghi periodi senza elettricità. Tiravamo fuori gli altoparlanti dai vecchi mangianastri e li collegavamo a prese vuote. Questo ci permetteva di comunicare con gli altri che erano “in rete” nello stesso momento. Non ho mai riflettuto se fosse una risposta collettiva al sinistro silenzio o solo un gioco da bambini. Non mi sono mai chiesto fino a dove potessero arrivare le nostre voci. Mentre i ragazzi più grandi chiacchieravano, si imponevano e dettavano i temi di discussione, noi più piccoli cercavamo, tra tutte le voci intrecciate, di riconoscere o intuire qualcuno di familiare. Quando tornava la corrente, con una scintilla e un po’ di fumo, l’ altoparlante si bruciava, e col tempo era sempre più difficile trovarne uno nuovo.

Quando arrivava la corrente, si ascoltava la radio, e solo in poche case, sui televisori in bianco e nero, si poteva vedere più di un canale. Il tema centrale alla radio e in televisione era la guerra. Fu allora che sentii parlare per la prima volta dei nostri nuovi nemici: musulmani e croati, che volevano ucciderci o cacciarci dalle nostre case per occupare tutto, dai quali ogni serbo doveva difendersi. Così, i nostri vecchi nemici, i tedeschi, contro i quali giocavamo con fucili di legno, sparirono improvvisamente dalle nostre vite. Erano stati sconfitti. Ora bisognava combattere nuovi nemici, peggiori di tutti i precedenti, visibili e invisibili. Neanche i partigiani erano più un esercito di cui ci si potesse fidare per questa battaglia, e apparve un nuovo esercito. Non sostenni mai con entusiasmo l’idea di cambiare eroi in un momento così delicato.

Poi ho scoperto che la guerra era stata preceduta dal referendum per l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, in cui la maggior parte dei cittadini aveva votato per la separazione dalla Jugoslavia e per l’indipendenza. La maggior parte dei serbi, circa il 32% della popolazione in Bosnia, boicottò il referendum sostenendo la necessità di restare uniti. Il riconoscimento internazionale del referendum e dell’indipendenza aumentò le tensioni, fino a portare alla guerra nell’aprile del 1992. La guerra in Bosnia fu, in qualche modo, il seguito della guerra nella vicina Croazia, già in corso.

E, in un certo senso, la guerra era anche la realizzazione di un sogno d’infanzia. Improvvisamente, i veri soldati e fucili erano a portata di mano, tanto che le repliche di legno, con cui giocavo imitando il mondo degli adulti, presto divennero superflue. I miei due fratelli maggiori erano già soldati. Il fratello maggiore stava terminando il servizio militare obbligatorio e veniva più spesso a casa, mentre il minore era appena partito e non poté neanche partecipare al funerale di nostro padre. Ogni loro ritorno a casa era per me una gioia immensa. Li seguivo ovunque, senza mai allontanarmi da loro. Mi affascinava tutto ciò che indossavano. Esaminavo attentamente ogni loro oggetto militare. Nulla al mondo aveva quel profumo, nulla stava così bene su un uomo come un’uniforme militare!

Uscivo sulla strada insieme agli altri bambini quando passavano le colonne militari, salutando ogni singolo veicolo, anche quelli che non avevano finestre visibili e non lasciavano segno della presenza di qualcuno all’interno. I soldati erano felici di rispondere al nostro saluto, e noi eravamo orgogliosi di tale attenzione. Non sapevamo da dove venivano né dove andavano, e non ci interessava. Rimanevano solo le tracce dei cingoli e, al centro del villaggio, dove la strada era stata recentemente asfaltata e dotata di nuovi marciapiedi, i segni su i nuovi cordoli. Ma non ci badavamo.

In Jugoslavia, l’esercito, ovvero l’Esercito popolare jugoslavo (JNA), aveva un ruolo centrale nella vita sociale, politica e culturale. In tutto il paese esisteva un forte culto dell’esercito. Era portatore dell’ideologia statale della “fratellanza e unità” e simbolo della convivenza jugoslava, proprio perché il servizio militare poteva essere svolto in tutte le regioni del paese. Film, libri e manifestazioni spesso raccontavano storie eroiche dell’esercito jugoslavo come simbolo di unità. La partenza per il servizio militare era uno degli eventi più importanti nella vita di una famiglia, ma anche del villaggio come comunità più ampia. Per tale occasione si organizzavano grandi festeggiamenti, che a volte duravano anche per giorni. Si credeva che partisse un ragazzo, ma che tornasse un uomo.

Questa credenza sull’esercito si disgregava progressivamente sotto il peso della guerra. E la guerra si intensificava bruscamente, tracciando nuovi confini, come in natura a volte si verificano sconvolgimenti tettonici da cui le nuove generazioni iniziano a contare il tempo. Così improvvisamente scoppiarono anche i conflitti tra le fazioni belligeranti. La morte era improvvisamente ovunque, l’unico suono che ricordo di quel periodo è quello delle esplosioni devastanti. La guerra si insinuava profondamente sotto la pelle degli adulti – si identificavano con essa. L’avevano accettata come una calamità naturale che li aveva colpiti. Cercavano un significato più profondo in tutto: nella morte dei loro figli – soldati in prima linea, nelle vite innocenti dei bambini perdute, nelle case e città distrutte e bruciate. Creavano storie nelle loro menti, nelle quali credevano fermamente. È ciò che fanno tutti gli adulti in guerra.

Noi bambini, invece, temevamo solo ciò che ci minacciava direttamente. Sotto la mia casa, vicino al fiume, improvvisamente si parcheggiavano lanciatori di missili balistici Luna-M, lanciavano i proiettili e scomparivano in fretta. Durante l’operazione, un giovane soldato correva vicino a mia casa, come se si fosse appena liberato da qualcuno, e si arrampicava sulla stessa collina sopra la mia casa su cui ero scappato il giorno del funerale di mio padre, osservando il cielo. Aveva con sé un sistema antiaereo portatile. Quello che fino a poco prima era il mio rifugio e il mio sguardo sul mondo, ora era diventato un poligono di guerra: il gioco era diventato realtà! Il lancio dei missili mi spaventò solo la prima volta, perché mi colse impreparato mentre ero al fiume. Facevo il bagno e non avevo nemmeno sentito arrivare i veicoli, solo un fragoroso rumore improvviso, seguito da due missili che volavano sopra la mia testa. Tutti al fiume raccolsero freneticamente le loro cose e scapparono a casa spaventati. La volta successiva, dopo il lancio dei missili, correvamo sul posto e osservavamo il cratere che il missile lungo quasi dieci metri e pesante oltre due tonnellate aveva lasciato durante il lancio. Il terreno fumava ancora e la terra era calda.

La guerra continuava e anche noi bambini crescevamo e ci adattavamo ad essa. Le lezioni finivano con il suono delle sirene di pericolo, dopo di che correvamo a casa. A casa ci aspettavano spesso le borse pronte per la fuga, ma fortunatamente non dovemmo mai abbandonare le nostre case. La linea del fronte era distante una decina di chilometri ed era rimasta statica per tutta la guerra. Raccoglievamo proiettili, resti di lanciarazzi e altre attrezzature militari. Ben presto arrivammo a possedere anche armi da fuoco, e persino bombe. Ce n’era in abbondanza. Giocavamo con le armi, che divennero parte della nostra quotidianità, e nessuno ci impediva di farlo. Una volta, un proiettile da fucile, dal quale stavo sciogliendo il piombo, esplose nella stufa di casa perché non sapevo che fosse un proiettile esplosivo. Scioglievamo i proiettili per usare le capsule di ottone per fare delle frecce. Nessuno mi rimproverò per questo.

Col tempo, la guerra perse il suo fascino. Le fantasie di eroismo, giustizia e nobili obiettivi diventavano sempre più sbiadite e fredde. Non c’erano più soldati che tornavano a casa con gloria, e col tempo smettemmo di uscire a salutare le colonne militari. Neanche i soldati rispondevano più come prima. Dalle camionette militari ci guardavano volti pallidi e rigidi, trasparenti e freddi come la nebbia sopra il fiume, portando con sé il trauma di una sanguinosa guerra.

Quando mio fratello, il secondo, tornò finalmente a casa, per la prima volta dal funerale di nostro padre, nostra madre lo abbracciò e disse piangendo: «Figlio, siamo rimasti senza padre. Come faremo?» Lui, ormai segnato dagli orrori della guerra, rispose freddamente: «Madre, oggi molti bambini restano senza padre, non piangere.» Era felice di essere tornato a casa. Trascorsi quel giorno con lui, eravamo al fiume, facemmo dieci giri intorno alla casa e facemmo delle flessioni. Stavo dietro di lui e guardavo come si vestiva davanti allo specchio, come infilava la camicia nei pantaloni, come indossava l’uniforme militare. Poi partì. Non tornò mai più. Non lo abbiamo nemmeno sepolto. Non ebbi occasione di scappare di nuovo, di separarmi dal mondo come se non appartenessi a nessun luogo.

La guerra ha lasciato desolazione. Col tempo, le rovine sono state restaurate, persino quelle che non servivano più a nessuno e che non avevano più proprietari. Arrivò il tempo della ricostruzione, che arriva sempre dopo la guerra. Venivano ricostruiti gli edifici religiosi, spuntavano nuove case sulle macerie… Tuttavia, sembrava che le persone non riuscissero più ad abituarsi alla pace. Rimase qualcosa di sommesso e pensieroso nelle persone che avevano vissuto la guerra, qualcosa che li aveva rallentati in ogni movimento della vita.

Sebbene siano passati più di venticinque anni da quei giorni, nei ricordi di chi è ancora vivo le immagini della guerra non sono sbiadite. È come se fossero condannati a convivere con i propri traumi fino alla morte. Un’intera nazione, esausta dalla guerra, è ancora oggi intrappolata in una sorta di silenzio. Nel frattempo, quasi il 50% della popolazione ha lasciato il paese, il che rende oggi la Bosnia il paese con il più alto tasso di emigrazione al mondo.

Slobodan Miletić

È ingegnere informatico e membro dell'associazione Giunchiglia-11 Aps. Vive a Nonantola dal 2013, dove gestisce una piccola agenzia web e un portale del villaggio bosniaco di Čečava, da cui proviene. È ex studente della Scuola Frisoun di Nonantola e fa parte della redazione di 'Touki Bouki'. Appassionato di tecnologie e curioso verso molti altri ambiti.

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