Mutaz Mohammed Al-Fateh, acquerello con fondi di caffè

Sud Sudan: speranze di cambiamento

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“Voi non immaginate neanche tutto quello che ho vissuto, non posso raccontarlo in una sera…” Così David ci disse le prime volte che gli chiedevamo di raccontarci le sue peripezie per arrivare a Nonantola. David Yambio è un ragazzo di 26 anni, arriva dal Sud Sudan, ma la sua non è una storia comune, conosce i confini di venticinque stati africani, perché li hanno attraversati le sue gambe di profugo: Mauritania, Uganda, Sudafrica, Zimbabwe, Ruanda, Mali, Marocco, Niger…Libia. Ha attraversato guerre, fughe, carceri, lager, lavori forzati e il mare. Le sue parole, i racconti, ma soprattutto i suoi occhi, lasciano trasparire tanta sofferenza, ma più in profondità una luce che non è stata soffocata, una luce di speranza, speranza che sia possibile cambiare le cose nella convinzione che non ci si possa arrendere alla violenza!

Grazie al legame di fratellanza con David è sorto in me l’interesse di scoprire da cosa questo ragazzo sia scappato, perché la situazione socio-politica sia invivibile per la gran parte della popolazione sudsudanese. Lui stesso mi ha raccontato come tutto sia sempre stato tanto complicato e ingiusto.

La guerra civile tra Nord e Sud è iniziata nel 1980 dopo anni di dominio inglese, è proseguita nel 1990 ed è finita nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace Agreement (CPA). Il trattato è stato il primo passo per il cammino verso l’indipendenza del Sud Sudan dal Nord. Infatti solo la classe militare e le élite del Nord arabo potevano prendere parte alla vita politica e all’interno di essa avevano un ruolo preminente nella definizione delle gerarchie il nepotismo, i clan e le tribù di appartenenza.

“Il Sud Sudan” mi ha raccontato David “è diviso in tre regioni: Alto Nilo, Equatoria e Bahar al-Ghazal. Non tutte le persone della comunità potevano prendere parte alla vita militare. Questa è anche una delle ragioni per cui la guerra è iniziata: la gente del Sud non aveva rappresentazione politica, non aveva autonomia, non poteva decidere nulla. Tutto era sotto il controllo del regime di Khartoum (capitale del Sudan) che era sempre sotto l’influenza della colonia britannica.

Quando l’indipendenza prese forma in Sud Sudan, dopo il referendum e la divisione del Paese in due (ufficialmente nel 2011), gli uomini che avevano ottenuto un enorme potere al governo, Salva Kiir Mayardit e Riek Machar, non adottarono un approccio politico nel governare il Paese. Avevano, infatti, un approccio politico soltanto nell’uccidere, nell’intraprendere una guerra e nel perseguire la vittoria. La loro vittoria era una vittoria individuale, un interesse individuale. E in questi giorni, ora mentre sto parlando, stanno ancora governando in questo modo poiché ritengono il Sud Sudan una loro proprietà. Nessun altro è autorizzato a partecipare.”

Si è dunque sviluppata una grande competizione tra le élite politiche, la corruzione nel gestire le risorse naturali ha invaso ogni angolo della vita sociale e istituzionale anche a causa dell’inesistenza di infrastrutture governative.

David continua a spiegarmi: “Per formare un governo, deve esserci un’associazione nazionale, composta dalla gente e per la gente. Significa che chiunque da una qualunque regione può avere una voce che lo rappresenti a livello nazionale. Significa che chiunque dal mio villaggio deve essere in grado di andare in città perché c’è una buona strada. Ma tutte queste cose sono mancate. Una società che non dispone di un sistema educativo, di infrastrutture, di scuole, di un sistema sanitario per le diverse necessità, della possibilità di dare spazio alle persone perché si sentano cittadini di una democrazia, è una società lacunosa.”

I ventuno anni di guerra civile (iniziata pochi anni dopo l’indipendenza del Sudan dai colonizzatori inglesi e proseguita fino alla firma del CPA nel 2005) non hanno portato ad un’effettiva vittoria perché il processo d’indipendenza non è mai finito. “Abbiamo vinto contro gli arabi e ora sono i nostri uomini, i nostri politici, le élite militari che dominano e il loro governo non è mai stato eletto.”

David mi racconta poi come la situazione non sia effettivamente cambiata per la gente comune, anzi le tensioni con il Sudan si sono riaccese portando nuovamente al conflitto armato le due parti: “Dopo la ripresa della guerra civile nel 2013, solo due anni dopo il referendum, c’è stata di nuovo una chiamata, la possibilità per le persone di svegliarsi, di capire per cosa avessero combattuto per 21 anni, solo due anni dopo aver raggiunto la libertà, la sicurezza e aver iniziato a sognare, a sperare, a ricostruire le nostre case, a ricostruire i nostri sogni, a rimettere insieme le nostre famiglie che erano scappate nei Paesi vicini. Perché tutti questi progetti dovevano morire così presto? Questa era una domanda per molte persone che come me non potevano avere nessuna partecipazione politica, perché la loro famiglia, il loro clan, non ne aveva il diritto. Quando si guarda a ciò che è stato scritto riguardo alla storia del Sud Sudan, sono menzionate solo due o tre tribù: Dinka, Nuer, Bari o Shilluk. Solo una minima parte delle 64 tribù. Non è possibile che di tutta la comunità sud sudanese solo tre o quattro tribù avessero preso parte alla lotta e alla liberazione del Paese. Questo non è vero. Per sopravvivere tu hai bisogno di me e viceversa. Il cibo che la classe militare mangiava non aveva tempo di coltivarlo. Da dove veniva allora questo cibo? Veniva dalla popolazione: non potevano certo permettersi la protezione che stavano ricevendo, ma ripagavano con il sacrificio e l’impegno.” La classe militare garantiva dunque sicurezza e in cambio riceveva il sostegno materiale dalla restante popolazione. Tuttavia una volta raggiunta la pace questa collaborazione è stata dimenticata dall’élite politica.

Il neoformato Stato aveva, e ancora oggi ha, innumerevoli risorse (è uno dei Paesi con maggiori fonti naturali dell’Africa), a cui però corrisponde una gestione inefficiente. La corruzione e gli interessi individuali all’interno del governo e degli alti gradi militari hanno portato ad una situazione economica nazionale disastrosa. Le entrate relativamente abbondanti del Paese venivano consumate dal sistema clientelare politico-militare e quasi nulla rimaneva per i servizi pubblici, lo sviluppo e la costruzione delle istituzioni. Così mentre alcuni si arricchivano immensamente, la posizione dei cittadini comuni non migliorò.

I sud sudanesi furono consumati da numerose crisi, le relazioni contrastate con il Sudan hanno prevalso su tutto il resto, sia su un programma di riforme del Paese, sia sulle crescenti tensioni interne alla leadership.

David conferma: “La guerra civile del 2013 è ancora in corso fino a oggi, nel 2024; si è tenuto un meeting in Kenya dove è stato ripreso il protocollo di pace fallito del 2018. Stanno ancora parlando…”

La situazione è innegabilmente drammatica e a pagare sono sempre le fasce più umili della popolazione. La corruzione, le guerre, la povertà, la mancanza di servizi, la debolezza del sistema sanitario così come la scarsità di alfabetizzazione, sembrano destinare questo Paese ad un continuo degrado, al ristagno della situazione. Forse però una fiammella di speranza è ancora accesa: chi, come David e non solo, continua a combattere per il cambiamento affinché la giustizia possa finalmente risollevare le vite delle migliaia di persone ormai rassegnate ad una vita indegna. Davvero solo chi non si arrende alla violenza e fa conoscere a chi è lontano e nella “pace” questa realtà di soprusi e ingiustizia, rende possibile un cammino insieme verso la giustizia e l’uguaglianza anche in questo Paese dimenticato dai media e dalle istituzioni internazionali.

David Yambio durante un’audizione al Parlamento Europeo

Martina Tinti

Sono Martina Tinti, ho 22 anni e vengo da Nonantola. A giugno mi sono laureata in lettere moderne all'università di Bologna. Ora sto proseguendo gli studi magistrali a Modena in Antropologia e Storia del mondo contemporaneo. Ho scelto di scrivere la tesi in storia contemporanea approfondendo il viaggio di David dal Sud Sudan fino all'Italia, dopo averlo conosciuto e ascoltato i suoi racconti, testimonianze di sofferenze e ingiustizie continue, ma anche di una speranza nel cambiamento. Ho scelto di proseguire gli studi storici uniti all'antropologia per poter acquisire una visione più completa e meno eurocentrica dell'umanità. Sogno, tra qualche anno, di poter trasmettere la passione per le materie umanistiche a tanti ragazzi attraverso l'insegnamento.

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