Nè di qua, nè di là

Fare scuola in tempo di guerra
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Vivo a Ivano-Frankivs’k, una città grande più o meno come Modena, situata nella parte occidentale dell’Ucraina. A Ivano-Frankivs’k sono scappate molte persone che abitavano vicino al confine con la Russia e che qui hanno qualche parente. Tra queste persone ci sono anche giovani che volevano continuare a studiare all’università. Anche se il governo offre a molti profughi dell’est una casa in affitto, in città è difficile trovare buone sistemazioni e l’affitto è solitamente molto alto.

Il 24 febbraio 2022, giorno in cui la guerra è scoppiata su larga scala, io ero a Nonantola, con mio figlio. Sono rientrata a casa due o tre mesi dopo ed era tutto molto strano. All’inizio non mi riuscivo ad abituare alle sirene, che suonavano in qualsiasi momento del giorno e della notte. Nel corridoio di casa mia, dove non ci sono finestre, ho allestito una specie di cameretta per mio figlio: lì ho messo il suo lettino con tutti i giochi. Quando di notte suonavano le sirene, stavamo nel corridoio. Qualche volta sono andata anche dalla mia vicina perché lei era terrorizzata e diceva: “Mentre suonano le sirene, sto meglio se parlo con qualcuno”.

Mio figlio aveva 3 anni e all’inizio non capiva. Ora secondo me lui capisce tutto e dà spiegazioni intelligenti della situazione. Sa che se suonano le sirene significa che c’è un pericolo, quindi bisogna andare nel rifugio e che questa è la guerra e lo spiegava con tranquillità anche ai nonni che chiamavano da Nonantola per sapere come stava.

Sono rimasta in Ucraina circa un anno lavorando sia come insegnante di francese, sia come psicologa. Alla fine ci si abitua alle sirene anche se ti impediscono di lavorare o di fare le altre cose tranquillamente. Abbiamo anche un’app sul cellulare che suona quando viene diramato un allarme. Una volta che sentiamo l’allarme, abbiamo cinque minuti di tempo per prendere lo zainetto che abbiamo sempre pronto, metterci le medicine, l’acqua, i documenti e andare nel rifugio più vicino. Prima della guerra non c’erano tanti rifugi: ora ne sono stati costruiti molti di più, almeno uno o due ogni casa. Le persone che non vogliono o non possono andare nei rifugi – per esempio gli anziani o i disabili – devono mettersi tra due muri senza vetri. L’app ci dà qualche informazione sul motivo dell’allarme, poi veniamo avvertiti da un altoparlante oltre che dall’app quando l’allarme è finito e possiamo uscire dal rifugio. Ma può capitare che, appena rientra un allarme, ne scatti subito un altro, quindi torniamo nel rifugio finché la situazione non è sotto controllo.ù

Lavorare a scuola è complicato perché, quando scatta l’allarme, tu che stai facendo lezione sei responsabile degli studenti della classe, bambini o ragazzi che siano. Devi radunarli tutti, uscire con loro, controllare che non scappino – questo succede più facilmente con i bambini piccoli – e andare con loro nel rifugio della scuola. È capitato varie volte che i bambini mi chiedessero di chiamare i genitori perché venissero a prenderli, ma per motivi di sicurezza non si può. Invece i ragazzi grandi capiscono meglio la situazione, sono più tranquilli e si danno da fare per occupare il tempo: cantano, scherzano, scrivono… Se una scuola non ha un rifugio, non può rimanere in funzione, viene chiusa: il rifugio oggi è obbligatorio.

Oltre che insegnante sono mamma: se mio figlio era alla scuola materna quando suonava un allarme, non potevo andarlo a prendere, dovevo occuparmi dei miei studenti e a mio figlio pensava la sua maestra, come secondo le regole. Un genitore può prendere il proprio figlio solo se è vicino alla scuola e riesce a raggiungerlo in cinque minuti dal suono della sirena, avvertendo prima la maestra.

Come psicologa mi occupavo principalmente di bambini e ragazzi i cui padri sono partiti per la guerra, ovvero la categoria di studenti più vulnerabile, quella più sofferente. Nella mia scuola c’erano milleduecento bimbi, quattrocento dei quali senza il padre.

La nostra scuola ha accolto diversi studenti provenienti dall’est dell’Ucraina: loro parlavano solo russo e solo qualche parola di ucraino. Per loro si è trattato di studiare l’ucraino, come alla Scuola Frisoun si studia l’italiano. Le lezioni a scuola sono solo in ucraino ed è molto difficile per i bimbi russofoni leggere, parlare e studiare dato che tutti i libri sono in ucraino. Ci sono anche associazioni che insegnano l’ucraino ad adulti russofoni. Ho avuto a scuola una bimba che si rifiutava di parlare ucraino perché la sua lingua madre è il russo: è una reazione normale e bisogna solo darle del tempo. Gli adulti russofoni si riconoscono subito perché quando parlano ucraino usano una lingua standard, senza inflessioni dialettali.

Ci sono momenti in cui il conflitto emerge proprio a causa della lingua. Soprattutto le persone anziane insistono molto sull’uso esclusivo della lingua ucraina nei luoghi pubblici. Tra bambini non ci sono queste conflittualità perché loro sono intelligenti e vedono nei loro compagni russofoni persone in fuga dalla guerra. Poi tra bambini si litiga, certo, ma non per questioni linguistiche.

In giro si vedono meno uomini di prima. Nei negozi per esempio ci sono solo commesse. Molti uomini sono partiti come soldati. Ho diversi amici che sono morti in guerra. Per ora, se sei insegnante o studente non sei obbligato a fare il soldato.

Questa estate sono rientrata a Nonantola con mio figlio, con l’intenzione di rimanere, per questo l’ho iscritto alla scuola materna. L’inverno scorso in città mancava spesso la luce e non è stato facile perché senza la luce non c’è il riscaldamento, devi muoverti al buio e fare velocemente le pulizie in casa per il poco tempo in cui c’è la corrente. Se a scuola manca la luce gli studenti tirano fuori dallo zaino la pila. Se scendiamo nel rifugio portiamo delle lampade ricaricabili: stare nel rifugio senza luce e sentire le sirene suonare fa aumentare la paura.

La vita diventa ogni giorno più cara e gli stipendi non aumentano. Tante persone se ne sono andate e gli insegnanti scarseggiano. Capitava che facessimo lezione nei rifugi che sono stati allestiti con libri, banchi e una cucina per dare da mangiare agli studenti. Però è una vita complicata.

Mio figlio ha cominciato la scuola materna a Nonantola: ora capisce l’italiano, dice la maestra, ma usa solo qualche parola. Io aspetto a cercare lavoro perché vorrei essere sicura che mio figlio si ambienti bene: il telefono è sempre vicino a me, in caso la scuola chiami. Ma spero di poter cominciare presto una vita nuova.

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