Io mi sarei anche fermata

11 Aprile 2025
Fotografia di Ghassen Chraifa

Assuefatti alla strada circolare, per loro non vi è nè avanti, nè dietro,
nè nord, nè sud.
Mahmud Darwish

Avevo quattro anni quando ho lasciato la famiglia per andare da mia zia ad Abidjan. Ricordo che è venuta a Séchi, la mia città natale, dicendo a mio padre che aveva bisogno di una bambina che la aiutasse con i figli. Lui ha accettato. A otto anni mi ha riportata dai miei genitori perché volevano che andassi a scuola, ma dato che a Séchi non c’era l’elettricità ho detto a mio padre che sarei tornata a casa della zia: “Non posso restare qui: quando è notte c’è buio, invece ad Abidjan quando è notte c’è la luce. Là è bello, io non resto qui”. Mio padre ha fatto di tutto per farmi cominciare la scuola. Ho frequentato le lezioni una settimana, poi gli ho detto: “Io qui non ci rimango”. E me ne sono andata. Sono fuggita per i campi e ho preso il treno per Abidjan.

Ho vissuto insieme a mia zia e l’ho aiutata a occuparsi dei suoi figli, senza riuscire ad andare a scuola, fino a quando, a tredici anni, ho deciso di raggiungere mia sorella maggiore a Yamoussoukro, la capitale amministrativa del paese. Dopo un anno sono tornata a Séchi per una vacanza e ho incontrato un uomo speciale: abbiamo cominciato a vivere insieme, abbiamo avuto tre figlie e quando è nata l’ultima ci siamo sposati. Poi lui è morto. Aveva dei problemi ai polmoni e al cuore perché fumava molte sigarette. I dottori gli avevano detto di non fumare, ma lui non li ascoltava. Era maestro di scuola, direttore nel villaggio di Tipa-Tipa: è lì che è morto. Mio padre, mia madre e mio marito sono morti a poco tempo di distanza. Questi lutti ravvicinati mi hanno distrutto e sono stati il motivo principale che mi ha spinta a partire per la Tunisia. Non ce la facevo più a rimanere lì con quel dolore.

In quel periodo, Sara, la mia figlia più piccola, frequentava il primo anno delle superiori: per permetterle di finire la scuola e prendere il diploma ho dovuto cominciare ad andare in giro per i villaggi e occuparmi di vendita al dettaglio. Ho dovuto cavarmela da sola, era tutto sulle mie spalle. I familiari di mio marito non si sono presi cura di noi, e anzi, pretendevano la dote di Sara, che tra le mie figlie era l’unica non ancora sposata. Inoltre volevano che sposassi un cugino di mio marito, uomo violento e gretto, che mi picchiava spesso, mi forzava… Di fronte a certe usanze, nel mio paese è obbligatorio obbedire ed è consuetudine fingere e andare a letto con qualcuno anche se lo si disprezza. Ma io non volevo piegarmi, non ero più una bambina, non avevano il diritto di darmi in sposa a un uomo con cui non desideravo stare.

Per queste ragioni volevo evitare qualsiasi contatto con la famiglia di mio marito e non volevo che nemmeno Sara ne avesse. Un giorno ho chiamato una mia amica di infanzia e le ho spiegato il problema. Lei mi ha subito aiutata ad arrivare in Tunisia, dove si trovava da alcuni anni, pagandomi il biglietto aereo: sono partita dall’aeroporto di Abidjan e sono atterrata a Tunisi.

In Tunisia, inizialmente ho abitato dalla mia amica e ho fatto diversi lavori: donna delle pulizie, babysitter, badante. In generale, là le donne fanno lavori domestici, non di ufficio, soprattutto se come me non sono andate a scuola. Quando ho trovato un lavoro stabile ho preso una casa in affitto a Sidi Sofiane, a nord di Tunisi. Per due anni ho lavorato come badante da un’anziana tunisina che abitava da sola. Lavoravo dal lunedì al sabato, dormivo da lei e tornavo a casa per il fine-settimana. Il lunedì ricominciavo. In questo modo riuscivo a mandare un po’ di soldi a mia figlia Sara, che era ancora in Costa d’Avorio. Dopo due anni finalmente mi ha raggiunto a Tunisi. L’ho fatta venire anche perché continuasse il suo percorso di studi in Tunisia: là ci sono molti indirizzi di studio e in quegli anni era sufficiente avere il passaporto per frequentare l’università.

In quel periodo la vita in Tunisia era tutto sommato semplice, ma a un certo punto hanno iniziato a crearsi problemi seri tra neri e tunisini. Nel giro di poco tempo ho avvertito che andare in giro da sola diventava rischioso. Le persone nere venivano spesso derubate del cellulare, della borsa e di altri oggetti personali. I ragazzini ci insultavano per strada, qualche volta ci sputavano addosso. I genitori lo sapevano, ma non dicevano niente, una situazione terribile. Bambini di 6-10 anni arrivavano in gruppo, ti saltavano addosso e ti derubavano.

È capitato anche a me. Ero in metropolitana e avevo il telefono in tasca. Mentre salivo su una carrozza, un signore me l’ha sfilato dalla tasca, l’ha passato a un suo amico e ha tentato di scappare. Le altre persone mi hanno avvertita. Io ho afferrato l’uomo e con l’aiuto di un giovane camerunese l’ho portato alla polizia. Ma la polizia l’ha lasciato andare subito, senza cercare di appurare come fossero andati i fatti. Penso che in Tunisia molti poliziotti siano razzisti: se qualche straniero ha un problema con un tunisino, danno ragione a lui solo per il fatto che è tunisino.

Negli ultimi anni il livello di razzismo è aumentato moltissimo. Non che prima non ci fosse, ma quando sono arrivata io era possibile vivere in Tunisia con una certa tranquillità. Ora il pensiero ricorrente in tante persone è che “noi” dobbiamo solo tornare a casa nostra. Complessivamente, nelle famiglie in cui ho lavorato le persone sono state gentili con me, ma poco prima di partire per l’Italia mi è capitato che una mia datrice di lavoro si sia rifiutata persino di darmi un bicchiere d’acqua. Non va bene, l’acqua non si rifiuta a nessuno.

I tunisini sono africani, ma dicono di non esserlo: hanno la pelle rossa, perciò non si sentono africani. Noi abbiamo la pelle nera, per questo ci detestano. Ci sono molti tunisini in Costa d’Avorio e li rispettiamo, ma in Tunisia noi neri non siamo ben visti. Conosco molte persone che sono venute in Europa per le stesse ragioni, perché per i neri la vita in Tunisia è diventata molto difficile. Oltre al fatto che essere neri fa sì che le condizioni di lavoro siano molto più pesanti. A volte ci trattano come animali.

Questa è sofferenza. La Tunisia è sofferenza. Anche molti tunisini lasciano il loro paese perché dicono che il lavoro è pagato male e che qui in Europa si trova più facilmente un lavoro dignitoso e ben remunerato. In molte delle famiglie tunisine in cui ho lavorato sentivo dire che i figli erano emigrati in Italia, in Francia o in altri paesi d’Europa.

Ho lasciato la Tunisia nel dicembre del 2022, ma la situazione è peggiorata ulteriormente dopo la mia partenza. Da allora, i tunisini non vogliono più vedere i neri. A un certo punto ho deciso di andarmene sia per queste ragioni, sia per problemi abbastanza seri di salute, che non mi permettevano più di lavorare.

Non pensavo all’Italia quando ho lasciato la Costa d’Avorio. È stata la mia amica di infanzia che mi ha consigliato di rimettermi in viaggio e di venire in Italia, nella speranza di potermi curare. Mia figlia ha pagato il viaggio perché in quel periodo non lavoravo. E così, da Tunisi mi sono diretta a Sfax. È là che si prende la barca. Ho preso un minibus da diciassette-diciotto posti e in quattro ore sono arrivata. Sono rimasta chiusa in una casa insieme ad altre persone, aspettando che ci dicessero che era il momento buono per partire. Dopo 10 giorni ci hanno portati al mare e siamo saliti sulla barca.

Il viaggio è tra la vita e la morte. Io ero costretta a farlo, ma è davvero pericoloso: bisogna affidarsi a Dio, è lui che ci protegge. Le barche sono in pessime condizioni, ma ti ci caricano lo stesso e ti fanno partire. Si sa, molte persone non arrivano vive in Italia. Noi eravamo trentasette, principalmente guineani, senegalesi e ivoriani. C’era anche un bambino di 9 anni.

Adesso vivo in Italia, ma mia figlia è ancora in Tunisia. Quando mi ha raggiuto a Tunisi avevo già problemi di salute, perciò lei ha cominciato a lavorare come domestica e ha dovuto abbandonare gli studi. Lei e il suo compagno ivoriano hanno cercato di raggiungere l’Italia due volte, ma non è andata bene. Sono partiti da Sfax, ma la guardia costiera ha avvistato la loro barca in mare e l’ha rimandata indietro. È questione di fortuna. Noi non abbiamo incrociato nessuno, per questo non abbiamo avuto problemi. Loro invece hanno dovuto pagare il viaggio due volte e ora non hanno i soldi per tentarlo di nuovo. Vorrebbero venire e anche io lo vorrei, ma non è per niente facile. È tutto nelle mani di Dio.


La fotografia che accompagna questo articolo è di Ghassen Chraïfa. L’articolo fa parte di un numero speciale di Touki Bouki pubblicato nel dicembre del 2024. 32 pagine di storie di vita, analisi, fotografie, illustrazioni e cartine geografiche interamente dedicate alla Tunisia. Chi volesse riceverne una copia cartacea (fino a esaurimento copie) può farne richiesta, con un piccola donazione, scrivendo a redazione.toukibouki@gmail.com.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Da non perdere

Sempre dritto

Una storia di lavoro e di amicizia

Amica e collega

Hakeem Omotoyosi nel ricordo di Patrizia Salmi.

Per Hakeem

Con queste parole i maestri della Scuola Frisoun hanno ricordato

Pan amasado

Una ricetta cilena per cucinare il pane.

I conti con il passato

Come contrappunto alla testimonianza di Diana e al racconto della