Il mondo di dentro e il mondo di fuori

Misura del corpo 1 - Jacques P. nella sua cella del centro di detenzione di Caen, 7 luglio 2016

Rieducazione o vendetta?

È molto difficile dire cosa sia il carcere. Ogni carcere è un mondo a sé, con una sua identità, un suo carattere, una sua vita propria. Una vita che oltretutto cambia nel corso del tempo. Proveremo a mettere insieme qualche considerazione generale che prende le mosse da un lato da quello che dice la legge, dall’altro dalle esperienze vissute direttamente dall’associazione di cui facciamo parte, il Gruppo Carcere-Città, in trent’anni di frequentazione delle carceri di Modena.

Partiamo dall’opinione comune, dal senso che le persone danno al carcere, perché ci permette di anticipare la tesi finale di tutto il nostro discorso. Il carcere è oggi un’enorme e insanabile contraddizione, fabbrica di conflitti, violenza ed emarginazione in ragione del fatto che, anche qualora non venga riconosciuto, è percepito dalla maggioranza dei cittadini e di conseguenza dalle nostre istituzioni e dai loro rappresentanti come una vendetta.

La sottrazione più o meno lunga della libertà viene intesa come un’azione proporzionale e contraria necessaria a ristabilire l’equilibrio di giustizia spezzato da un delitto. Questa percezione – diffusa al punto da determinare la struttura materiale e l’organizzazione delle nostre carceri – è un problema non tanto di ordine morale, quanto istituzionale: non si contano le statistiche e le inchieste che da oltre un secolo dimostrano come il carcere ottenga effetti – di rieducazione e di sicurezza sociale – opposti a quelli che dichiara di perseguire.

È la Costituzione che dovrebbe indicare l’orientamento generale a cui improntare l’organizzare delle nostre carceri. In particolare l’articolo 27 definisce due tratti fondamentali della pena da cui dovrebbe discendere tutto il resto. Per prima cosa stabilisce che la pena deve essere umana. La Costituzione riconosce cioè la persona nella sua umanità e non la identifica con il reato che ha commesso. Secondariamente stabilisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Cosa significhi rieducare è molto difficile a dirsi. Probabilmente il senso di questa parola cambia di epoca in epoca. Per certi versi “rieducare” è un concetto contestabile di per sé.

Ma prendiamolo nel suo significato più ragionevole. Commettere un reato– rubare, picchiare, truffare, uccidere… – significa instaurare una relazione con gli altri fondata sulla violenza e la sopraffazione. E questo offende tanto la vittima, quanto la collettività di cui la vittima è parte. Da questo punto di vista il reato pone il colpevole fuori dal perimetro della convivenza civile. La pena, a voler seguire il dettato costituzionale, dovrebbe servire a ricostruire “il contratto” di convivenza che l’azione delittuosa ha infranto (l’azione, non la persona in quanto tale), per restituire alla vittima e alla società quello che il delitto ha tolto loro, ovvero la possibilità di una relazione positiva. Il carcere tutto questo non lo fa, la società tutto questo non lo chiede. Preferisce rinchiudere le persone in un luogo lontano e nascosto alla vista e con ciò rimuovere i conflitti e i problemi, anche economici, sociali, culturali, di cui i detenuti, pur con la loro responsabilità individuale, sono sempre espressione.

Uno dei passaggi fondamentali affinché il colpevole ricostruisca una relazione positiva con la vittima e la società sarebbe riconoscere la responsabilità di quello che ha compiuto e limitare l’umana tendenza a giustificarsi, ad autoassolversi. Se mi riconosco responsabile di un’offesa arrecata a qualcun altro, diventa evidente l’importanza di trovare un contatto con la persona offesa. E invece questo contatto non c’è quasi mai, a partire dai processi, dove a incontrarsi non sono le parti in causa, ma i loro avvocati. Così come le disfunzioni del carcere forniscono quasi sempre ai detenuti ulteriori motivi di autoassoluzione.

Il paradosso della Regina rossa – Paul che corre su un tapis roulant, edificio centrale di Condé-sur-Sarthe, 4 maggio 2016

Sant’Anna

Difficilmente la gente, passando davanti al Sant’Anna di Modena, si chiede chi ci sia lì dentro, quali siano le storie, i progetti, i desideri dei detenuti. E invece, quando non morbose, sarebbero curiosità non solo legittime, ma utili perché consentirebbero di conoscere altri modi di essere e di vivere e al tempo stesso ci farebbero conoscere meglio noi stessi. Conoscere il carcere significa conoscere le contraddizioni, gli errori, i conflitti, i fallimenti profondi di una società.

Nella casa circondariale di Modena vivono attualmente 392 detenuti (dati del Ministero della Giustizia aggiornati a marzo 2022) per una capienza massima fissata a 369. Dopo lo svuotamento a seguito della rivolta dell’8 marzo 2020, uno dei fatti più tragici vissuti dalla città dopo la fine della Seconda guerra mondiale, siamo tornati molto in fretta a quel sovraffollamento che evidentemente è uno dei mali cronici dei nostri istituti penali se già nel 2013 la corte di Strasburgo ha multato l’Italia per il numero eccessivo di detenuti presenti nelle nostre carceri.

Su 392 detenuti, 229, ovvero il 60% circa, è di origine straniera, quando gli stranieri residenti in Emilia Romagna corrispondono a circa il 12% della popolazione. Provengono prevalentemente dal Maghreb – Marocco, Tunisia e Algeria – ma anche dalla Romania, dalla Nigeria e dai quattro angoli del mondo. L’età prevalente va dai 25 ai 40 anni. Ma ci sono persone di tutte le età, anche anziani, soprattutto tra gli italiani. Quello che accomuna tutti i detenuti è la loro classe sociale. Con pochissime eccezioni, il carcere è fatto di poveri, tossicodipendenti, persone senza titolo di studio, disoccupati. Il carcere li dovrebbe aiutare a uscire da questa condizione di marginalità. A volte ci prova. Qualche volta ci riesce perfino. Ma molto, molto raramente.

Il Sant’Anna è composto da nove sezioni. Ogni sezione, un corridoio. Lungo il corridoio, le celle. In ogni cella, due persone. Una media di 20 celle per sezione. Normalmente i detenuti rimangono chiusi quasi tutto il giorno all’interno delle loro celle. Passano il tempo sul letto, chiacchierando con il compagno, sempre che vadano d’accordo e che parlino la stessa lingua.

Il carcere è un luogo rumorosissimo. La televisione sempre accesa. I cancelli che sbattono e sferragliano di continuo. L’altoparlante dell’assistente che gracchia i nomi dei detenuti per indirizzarli di qua o di là. E poi ci sono le voci dei detenuti. Una babele di lingue. Toni di voce sempre alti, amplificati dall’eco dei corridoi e dal tentativo di comunicare con qualcuno che magari è rinchiuso cinque celle più in là.

Per un’ora al giorno i detenuti possono uscire dalla cella e andare in una sala, chiamata “socialità”, per chiacchierare con gli altri o per giocare a carte. Nel primo pomeriggio hanno la possibilità di andare all’aria: uscire dalla sezione, scendere in cortile, passeggiare, parlare. Uno sfogo importante. Una volta a settimana, hanno accesso al campo sportivo.

Ma le sezioni non sono tutte uguali. Chi entra in carcere è accompagnato direttamente dalla polizia e nella maggior parte dei casi non ha ancora ricevuto una sentenza definitiva. La sezione dei “nuovi giunti” è una delle più dure: le persone non sono abituate alla vita del carcere, si arrabbiano, ci sono continue tensioni. Tutto il tempo è consumato a pensare al processo, all’avvocato, alla sentenza. Questo stato d’animo di costante attesa toglie la voglia di fare qualsiasi cosa e quando passa il carrello dell’infermeria le gocce per dormire scorrono a fiumi. Forse anche in ragione di questa perenne tensione, nella sezione dei “nuovi giunti” sono sì previste le ore di socialità e di aria, obbligatorie per legge, ma tutto il resto è precluso.

E poi ci sono sezioni le “speciali”. Al Sant’Anna sono due, riservate ai delitti sessuali contro donne o bambini. Chi ha commesso questo tipo di reato viene isolato dagli altri perché anche in carcere correrebbe dei grossi rischi. Devono essere protetti dagli altri detenuti. “I protetti” sono considerati il peggio del peggio.

Non si riflette mai abbastanza sul fatto che il carcere ha un costo economico altissimo, circa 170 euro al giorno, cioè 5mila euro al mese, per ogni detenuto. Che moltiplicato per gli attuali 370 detenuti, fa 63mila euro al giorno, quasi 23 milioni di euro all’anno. Il costo è determinato per lo più dalle spese di gestione, dal vitto e dal personale impiegato: la direzione, il personale di custodia, quello delle pulizie, educatori, medici. Se un detenuto con sentenza definitiva lavora (dentro al carcere) o ha delle entrate (fuori), lo stato esige una quota di mantenimento di 80 euro mensili. Un contributo per la gestione della struttura. Ma nella sostanza i costi di gestione rimangono altissimi e se si guarda ai risultati, agli effetti che il carcere produce sulle persone e sulle città, non c’è dubbio che siano soldi buttati via.

Con le risorse buttate nella gestione delle carceri, potremmo costruire strutture molto più utili, ad esempio comunità per disintossicarsi. La maggioranza dei detenuti infatti finisce in carcere per reati connessi al piccolo spaccio che spesso è accompagnato o motivato dall’uso personale. Oltre il 30% dei detenuti è tossicodipendente e il problema viene tamponato dando loro una droga di stato, il metadone, che stordisce, anestetizza e attenua i sintomi dell’astinenza. L’obiettivo nobile sarebbe di arrivare a scalarlo lentamente e restituire alla persona il controllo sull’uso delle sostanze. Processo difficilissimo, che avviene lentamente e solo se ci sono altre condizioni – educative, di opportunità, di motivazione – che in carcere sono totalmente assenti. L’obiettivo reale è togliere temporaneamente gli effetti molesti dell’astinenza. Che questa strategia sia fallimentare l’abbiamo drammaticamente constatato tra l’8 e il 9 marzo 2020 quando nella rivolta del carcere di Sant’Anna sono morte 9 persone a seguito dell’assalto all’infermeria e all’assunzione smodata di metadone.

Qualche settimana fa, un ragazzo tossicodipendente, giovane e minuto, ha pensato bene di estrarre dell’alcol dalla frutta lasciata marcire. Il suo compagno di cella, che era il doppio di lui, gli diceva di piantarla di bere quella roba. E il ragazzo a un certo punto ha dato di matto, ha preso il piede di un tavolino e ha iniziato a manganellare il compagno di cella che le ha prese di santa ragione. Fino a quando non sono arrivati quattro agenti che hanno faticato a fermarlo e che si sono presi delle manganellate pure loro.

Un altro modo per sballarsi è il fornellino. Alcuni si mettono un sacchetto in testa e respirano il gas. Se sono abituati e se conservano una certa prontezza di riflessi riescono a chiudere la levetta in tempo, se no rischiano di lasciarci le penne. Una delle principali cause di morte in cella, oltre alla corda intorno al collo, è il soffocamento con il gas dei fornellini. Il tasso di suicidi in carcere è 9 volte più alto della media e a volte è difficile distinguere il confine tra un tentativo di sballarsi e un suicidio. Tant’è che adesso solo due sezioni delle nove che ci sono al Sant’Anna hanno il fornellino. E solo durante il giorno.

Tornando al dettato costituzionale, dei 170 euro circa che spendiamo al giorno per ogni detenuto, solo 5 euro vengono investiti in rieducazione. Tant’è che in questo momento al Sant’Anna gli educatori presenti su poco meno di quattrocento persone sono soltanto tre. Il fatto che non si spendano i soldi diversamente è imputabile al moralismo e al classismo di fondo della nostra società. Il moralismo suggerisce l’idea che chi delinque non merita gli sforzi economici e organizzativi della collettività, il classismo aggiunge l’idea che i poveri si meritino di essere poveri.

Una macchina ottica – L’”edificio A” del centro di detenzione di Caen, costruito nel 1842 da Harou-Romain. A sinistra: veduta dalla soglia di una cella verso la cabina di sorveglianza; a destra: vista dalla cabina di sorveglianza verso l’entrata delle celle, 5 luglio 2016.

Carcere-Città

Non neghiamo che la pena abbia una sua importanza, ma non sta scritto da nessuna parte che debba essere necessariamente il carcere. Si dovrebbero sperimentare soluzioni diverse a seconda della persona e dei contesti di vita. Il carcere dovrebbe essere limitato a quei casi, e sono pochissimi, che non si possono affrontare se non con lo strumento della reclusione. Extrema ratio.

Spesso a noi del gruppo Carcere-città chiedono perché ci facciamo ingranaggio di una macchina che non funziona, perché ci ostiniamo a dialogare con un’istituzione che nella maggioranza dei casi non solo non serve a rieducare le persone ma anzi rinforza le loro tendenze antisociali. Continuiamo a entrare in carcere semplicemente perché esiste. E perché dentro ci vivono per un periodo più o meno lungo persone che rischiano di essere buttate lì e dimenticate da tutti. Ci illudiamo di aiutare a coltivare qualche speranza, un segno che possa aprire orizzonti diversi da quelli dell’illegalità, ma siamo consapevoli di fare quasi solo opera di assistenza.

Formalmente si entra in carcere grazie all’articolo 17 della legge 354 del 1975 che previo parere favorevole del direttore consente a privati e associazioni di proporre ai detenuti attività mirate alla rieducazione. Certo la rivolta del marzo 2020 da questo punto di vista ha rimandato il carcere indietro di trent’anni e adesso è quasi tutto fermo.

Carcere-Città si avvale anche dell’articolo 78 della stessa legge che istituisce l’assistente volontario, una figura che dovrebbe partecipare “al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale”. Il “sostegno morale” in realtà assume quasi sempre la forma della risposta al bisogno immediato: la telefonata, il tabacco, il bagnoschiuma, lo spazzolino, la richiesta di un giro in posta, della presa di contatto con un familiare… I bisogni immediati sovrastano quasi sempre il tentativo di arrivare alla persona, alla sua storia, a cosa pensa di quello che ha fatto, a cosa pensa di fare quando uscirà.

Disponiamo poi di un piccolo contributo che nella maggior parte dei casi elargiamo in sigarette. Senza sigarette si raddoppia il peso della carcerazione. Chi non ha nessuna prospettiva trova nel superfluo una necessità, un anestetico, paragonabile alle gocce per dormire o allo sniffo di gas. Non si ha idea di quante liti avvengano in carcere a causa delle sigarette. Carcere-città spende 40€ di tabacco a settimana. Soldi non rendicontabili a nessuna istituzione perché “il fumo fa male”. Pensare che il fumo in carcere faccia male significa non conoscere il carcere e come si vive realmente in quel luogo, dove il fumo solitamente viene sostituito dalla terapia per dormire e da tutti gli psicofarmaci che aiutano a non pensare, a scollegarsi dalla realtà.

A partire dal 2014 abbiamo pubblicato, con grande fatica ma anche grande soddisfazione, l’“Ulisse”, un giornalino scritto per e insieme ai detenuti, esperienza anch’essa conclusa con la rivolta del 2020 e che speriamo prima o poi di riprendere.

Insomma ci arrabattiamo con quello che le contingenze ci consentono di fare, ma l’obiettivo principale è stimolare, sensibilizzare e mettere in contatto le istituzioni, i cittadini e i detenuti. Il mondo di fuori con quello di dentro. Il Gruppo Carcere-Città, quella lineetta tra le due parole sta lì a dirlo, è nato proprio allo scopo di riconnettere due realtà, la società dei liberi e quella dei detenuti, che pur essendo profondamente intrecciate non dialogano mai.

Se ci fossero istituzioni intenzionate a intervenire realmente sui problemi della società la domanda complessa, autentica, legittima da porre ai cittadini sarebbe: cosa ne facciamo di queste persone? Cosa facciamo insieme a queste persone? Ora, per concludere da dove siamo partiti, non ci nascondiamo il fatto che la complessità delle nostre società e dei problemi che le affliggono rendano molto difficile applicare con efficacia l’articolo 27 della Costituzione, ma è altrettanto evidente che il carcere, nella sua organizzazione materiale e culturale e negli effetti che produce sulle persone, vada quasi sempre nella direzione opposta a quella indicata dalla Costituzione. Completa, semmai, e porta a termine l’opera di disintegrazione iniziata da altri.

Punto d’appoggio – Fotografie realizzate in collaborazione con Lucile S., casa di detenzione di Rouen, 8 settembre 2017.

Tutte le immagini di questo articolo e di gran parte del secondo numero di Touki Bouki sono di Maxence Rifflet – maxencerifflet.com – fotografo francese nato a Parigi nel 1978. Fanno parte di un lungo lavoro di ricerca durato dal 2016 al 2018 e realizzato in collaborazione con i detenuti di sette prigioni francesi. Il frutto di questo lavoro è appena stato pubblicato in un libro che, attraverso un montaggio di testi e immagini, raccoglie anche documenti anonimi e opere artistiche riguardanti le carceri, archiviati dall’autore nel corso della ricerca: Maxence Rifflet, Nos prisons, Le Point du Jour, 2022.

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