oggi ho quarantadue anni e mi sento ancora molto giovane, se fossi uguale ai porcospini che si aggirano nei campi intorno a questo paesino non potrei valutare una vita altrettanto lunga, infatti noialtri porcospini di questa regione nasciamo dopo una gestazione di novantatré o novantaquattro giorni e viviamo al massimo ventuno anni in cattività, Ma a chi interessa passare la vita recluso come uno schiavo, a chi interessa sognare la libertà dietro un filo spinato, eh, alcuni animali fannulloni ci si crogiolerebbero, lo so, fino a dimenticare che la dolcezza del miele non consola della puntura dell’ape, per parte mia preferisco le incertezze della vita selvatica alle gabbie in cui vengono segregati molti miei compagni per finire un giorno o l’altro in polpette nelle pentole degli umani, in effetti ho avuto il privilegio di battere il record di longevità per la mia specie, sono arrivato a contare lo stesso numero di anni del mio padrone, con questo non voglio sostenere che essere il suo doppio sia stata una passeggiata, era un lavoro vero, mi stimolava tutti i sensi, gli ubbidivo senza batter ciglio anche se durante le ultime missioni ho cominciato a prendere le distanze, a dirmi che così ci stavamo scavando la fossa, ma gli dovevo ubbidienza, assumevo la mia condizione di doppio come una tartaruga si carica addosso il carapace, ero il terzo occhio, il terzo orecchio, la terza narice del mio padrone, il che vuol dire che quel che non poteva vedere, sentire, annusare glielo trasmettevo io, in sogno, e se non rispondeva ai miei richiami gli comparivo davanti all’ora in cui gli uomini le donne di Séképembé uscivano per andare nei campi
Meglio dunque la libertà che la cattività oziosa di molti suoi simili per il porcospino protagonista di Memorie di un porcospino del congolese Alain Mabanckou. Un romanzo a tratti respingente che racconta del doppio nocivo, l’altro da sé del ragazzo, poi uomo, Kibandi, che a dieci anni è costretto a bere, segretamente, nella foresta, il mayamvumbi, una misteriosa bevanda iniziatica: così il padre porta a compimento l’obbligo ancestrale di trasmettere in eredità al figlio maschio il potere del doppio nocivo. Il doppio nocivo di Kibandi è proprio un porcospino, voce narrante del libro: essere un doppio nocivo è una prigione per lui perché un doppio non deve giudicare né discutere, tantomeno lasciarsi andare ai rimorsi al punto da arrestare il corso delle cose. Per liberarsi dai sensi di colpa e ritrovare la strada della libertà dopo anni di prigionia, il porcospino sceglie un amico, silenzioso che ammira e a cui vorrebbe assomigliare, un baobab. L’universo animale prende voce e crea una narrazione dissacrante dell’universo umano. L’esecutore testamentario dell’autore del manoscritto dice di lui Per lui il mondo è soltanto la versione approssimativa di una favola che non saremo mai in grado di afferrare fin quando continueremo a prendere in considerazione soltanto la rappresentazione materiale delle cose. Poi del protagonista dice Strano porcospino […] molto addentro alla natura umana e abituato a servirsi della digressione come di un’arma allo scopo di tracciare uno schizzo di noi umani, anche biasimandoci senza mezzi termini. Dopo averlo letto, ho smesso di guardare gli animali con gli stessi occhi. Del resto, chi tra l’Uomo e l’animale è la vera bestia? Bella domanda!
Alain Mabanckou, Memorie di un porcospino, 66thand2nd, Roma, 2017. Il libro è presente nella biblioteca della Scuola Frisoun dove è possibile consultarlo o prenderlo in prestito. La citazione iniziale si trova a pp.11-12, la seconda a p.135, le ultime a p.178.