Nei Jardins de Carthage, un nuovo quartiere di Tunisi la cui costruzione è stata interrotta allo scoppio delle rivolte del 2011, viene ritrovato il cadavere di un custode ucciso e murato in un cantiere edile. Batal e Fatma sono incaricati delle indagini e iniziano a interrogare gli operai dei cantieri vicini. La polizia conclude rapidamente il caso bollandolo come suicidio per immolazione, un gesto di disperazione e rivolta che in Europa abbiamo imparato a conoscere proprio allo scoppio delle cosiddette primavere arabe. Batal e Fatma non credono a questa tesi: perché scegliere un luogo così solitario quando di solito ci si immola nei centri cittadini, sperando di provocare una reazione popolare?
Il titolo, Ashkal, mi è stato tradotto come “l’insieme di tutte le facce” da un ragazzo tunisino con cui ho lavorato per un po’ di tempo, forse un’allusione all’identikit, dato che si tratta di una specie di procedural thriller in cui i poliziotti indagano sulla catena di suicidi per autoimmolazione che si susseguono dopo quel primo ritrovamento. Film lento e piuttosto cupo, che sconfina nell’horror metafisico alla Kiyoshi Kurosawa e tenta di veicolare una metafora politica forse un po’ semplice e poco articolata sul trauma del 2011, ma che dopo un po’ gira insistentemente a vuoto. In estrema sintesi, una storia di fantasmi. Però c’è del realismo sociale nelle ambientazioni e nella caratterizzazione del quotidiano dei personaggi, qualche scorcio. È anche montato bene, i raccordi fatti bene.
Micro recensione a cura di Alessandro Tonini.
Ashkal, di Youssef Chebbi, Tunisia 2022, 92′