La Chiesa e il mondo

don Milani anticipatore del Concilio Vaticano II
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Dopo la sua partecipazione all’incontro dell’11 settembre scorso, organizzato a Nonantola da “Il futuro adesso” per ricordare, a cento anni dalla nascita, la figura e il pensiero di don Lorenzo Milani, abbiamo chiesto a don Erio Castellucci un contributo su uno dei temi soltanto sfiorati in quell’occasione: il rapporto tra il priore di Barbiana e il Concilio Vaticano II. Un rapporto che non sembra aver lasciato traccia negli scritti e nel pensiero di don Milani per il semplice fatto che – questa la tesi di don Erio – don Milani aveva già affrontato e con largo anticipo i temi del Concilio. In particolare “l’accentuazione della missione come perno della Chiesa”.
In un mondo che, anche senza esserne ancora consapevole, stava definitivamente uscendo dal regime di cristianità, e che di lì a breve (oggi!) non avrebbe più organizzato la sfera civile intorno alle istituzioni ecclesiasitche e non avrebbe più dato senso alla vita collettiva a partire dal magistero della Chiesa, la Chiesa secondo don Milani e secondo il Concilio aveva l’occasione di dare un senso nuovo alla propria missiologia, da non intendere più come integrazione forzata dell’altro da sé in terra straniera, ma come processo di “svuotamento di sè”, finalizzato a diventare una cosa sola col nuovo popolo di missione. Un popolo che non si trova più all’altro capo del mondo, ma che è qui, di fianco a noi, parla la nostra stessa lingua e ha le nostre stesse abitudini.
Nel parlare di don Milani, del Concilio e di questioni lontane nel tempo e apparentemente tecniche, ci sembra che don Erio, arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e vice-presidente della CEI per l’Italia settentrionale, parli in realtà della sua visione della Chiesa e del senso che da anni sta dando alla sua pastorale. (Touki Bouki)

La mia conoscenza di don Lorenzo Milani non è quella dello studioso, ma del lettore. A 17 anni lessi la Lettera a una professoressa, poi qualche anno dopo la Lettera ai cappellani e la Lettera ai giudici. Da studente di teologia, avevo consultato Esperienze pastorali, senza peraltro sapere che apparteneva ancora all’indice dei libri proibiti; nei primi anni di ministero, insegnando teologia al Seminario di Bologna, fui relatore di una tesi di baccalaureato intitolata “Non lascio la Chiesa per nessuna cosa al mondo”, sul difficile rapporto tra don Lorenzo e la Chiesa; tesi che però non venne mai discussa, perché lo studente che l’aveva quasi ultimata, il seminarista Andrea Zambianchi di Forlì, morì di tumore nel settembre 1996, in prossimità dell’inizio della quinta teologia. Fu lui che mi fece riprendere in mano, all’epoca, altri scritti di don Milani, come l’epistolario curato da Michele Gesualdi e pubblicato da Mondadori nel 1970. Ho poi consultato in questi anni i due pregevoli volumi dell’opera omnia pubblicata in occasione del cinquantesimo della morte nella collana Meridiani dell’edizione Mondadori, diretta da Alberto Melloni e curata da Federico Ruozzi, Anna Carfora, Sergio Tanzarella e Valentina Oldano. In questo monumentale lavoro, oltre agli scritti già pubblicati, si trovano anche più di 120 lettere inedite. Ho cercato infine di leggere alcune opere su don Milani: ho trovato molto interessanti alcuni articoli e soprattutto la commovente ed incisiva biografia intitolata L’esilio di Barbiana, pubblicata nel 2016 da Michele Gesualdi, scomparso due anni dopo. Ricordo infine due strumenti che mi sono stati particolarmente utili: il volume di Filippo D’Elia La Chiesa di don Milani (EMI 2008),che ingloba anche la menzionata tesi di Andrea Zambianchi, e la raccolta di documenti e studi Don Lorenzo Milani e la sua Chiesa, curata da Massimo Toschi e uscita nel 1994.

Una delle questioni che spesso viene tralasciata, negli studi milianiani, è la sua relazione con il Concilio Vaticano II (1962-1965), che papa Giovanni XXIII prima e Paolo VI dopo presiedettero, quando don Lorenzo era ancora in vita. C’è chi sostiene che don Lorenzo non abbia recepito il Concilio e chi invece lo ritiene un precursore. Leggendo gli scritti di don Lorenzo, mi è parso evidente un dato, che può essere interpretato in modi diversi. Il dato è questo: il pensiero di don Lorenzo prima, durante e dopo il Vaticano II rimane sostanzialmente immutato. Come osserva Alberto Melloni, nell’introduzione all’opera omnia, don Lorenzo «quasi non vede il Vaticano II, e certo non ne fa un centro di interesse». Può sembrare strano, almeno per due motivi. Il primo è bene illuminato nella biografia di Gesualdi, là dove ricorda uno degli ultimi dialoghi con don Milani, quando gli domandò perché molti anni prima lo avesse sgridato “con una furia incredibile”, per il semplice fatto che lui, bambino, per fare alcune operazioni di aritmetica, aveva raccolto dal cestino un foglio di carta buttato via dal priore, nello studio dove lui lavorava al libro Esperienze pastorali. La sorprendente risposta di don Lorenzo fu:«Ho un pensiero che perfeziono giorno dopo giorno. Peso attentamente ogni parola perché non voglio essere frainteso. Se tu avessi portato quel foglio a scuola e la maestra l’avesse letto, avrebbe potuto diffondere un mio concetto superato». Il priore infatti, conclude il suo antico alunno, aveva «un pensiero in continua evoluzione». È quindi tanto più strano che questo pensiero rimanga immutato negli anni del Vaticano II, seguendo lo sviluppo e il rinnovamento della dottrina conciliare. Ed è tanto più rilevante questo fatto, quanto più lo si confronta con l’innegabile mutamento avvenuto dal 1962 al 1965 nella mente della maggior parte dei vescovi che parteciparono all’assise conciliare. Una felice battuta di papa Giovanni Paolo II, più di tante considerazioni, dà la misura di questa evoluzione. A conclusione dell’udienza privata concessa il 5 dicembre 1995 al prof. Giuseppe Alberigo e ad una rappresentanza degli studiosi che stava lavorando alla storia del Vaticano II, pubblicata poi negli anni successivi in cinque volumi, papa Wojtyla ricordò così l’esperienza di padre conciliare sua e degli altri vescovi: «siamo entrati in Concilio con una mitria sulla testa, e quando siamo usciti era uguale solo la mitria».

Le interpretazioni del fatto che il pensiero di don Milani rimane nella sostanza il medesimo prima, durante e dopo il Concilio, possono essere differenti: qualcuno ne potrebbe dedurre che non è stato toccato dalla dottrina del Vaticano II o che aveva addirittura un pensiero anticonciliare; altri, al contrario, potrebbero ritenere che non ha avuto bisogno di evoluzioni sostanziali proprio perché anticipava alcuni tratti fondamentali dell’impostazione conciliare. Personalmente, per quanto posso avere compreso, mi colloco su questo secondo versante. Senza potermi addentrare in un confronto articolato tra il pensiero milaniano e la dottrina conciliare – operazione che richiederebbe del resto più tempo e competenze – mi limito a segnalare un punto di consonanza, nel quale don Lorenzo appare uno dei precursori o degli interpreti più efficaci. Se dovessi individuare il perno dell’ecclesiologia conciliare, sceglierei proprio l’idea della missione come costitutiva della Chiesa. Prima del Concilio si tendeva infatti ad attribuire alla “missione” un carattere transitorio, quasi di passaggio, in attesa dell’ingresso di tutte le genti nel corpo ecclesiale; e si tendeva inoltre a delegare solo ad alcuni, dentro la Chiesa, il compito missionario. Il Vaticano II mutuò dalle antiche fonti, a partire dal Nuovo Testamento stesso, l’idea che la Chiesa esiste per annunciare Cristo agli uomini e non per se stessa e dunque è “per sua natura” missionaria (AG2); e che tutti nella Chiesa, in quanto battezzati e credenti nel Signore Gesù, sono “missionari” (cf. AA2). Si evince dall’intero magistero conciliare e postconciliare una accentuazione della missione come perno della Chiesa. Pensiamo solo al fatto che papa Giovanni XXIII, indicendo il Concilio, gli assegnò questo compito basilare: «mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del Vangelo il mondo moderno». Come si vede, non è menzionata direttamente la Chiesa, considerata qui da papa Roncalli come tramite – l’incipit della Lumen Gentium dirà “segno e strumento” – della relazione efficace tra Vangelo e mondo. Paolo VI con l’enciclica Ecclesiam Suam (1964) e poi con l’esortazione Evangelii Nuntiandi (1975) procederà nella stessa direzione dinamica.

Cos’ha a che vedere tutto questo con il pensiero di don Milani? Credo che c’entri parecchio. La direzione complessiva della Chiesa conciliare è indubbiamente “estroversa”; la storia del Vaticano II dimostra che una parte crescente e poi maggioritaria dei vescovi e dei periti fin dall’inizio si collocò sulle prospettive di papa Giovanni, rifiutando un approccio nostalgico alla “cristianità” teso a condannare in blocco il mondo e contrapporvi la presunta solidità della Chiesa, e adottò un approccio più umile, meno trionfalistico e capace di rapportarsi con il mondo dall’interno, non dall’alto. In altre parole il Concilio seppe globalmente prendere atto che la secolarizzazione era un processo irreversibile, di fronte al quale non metteva conto proseguire una battaglia di trincea, ma conveniva – evangelicamente – porsi come lievito, come sale e luce, come “segno” della salvezza portata da Cristo. Uno dei passaggi più eloquenti, dovuto a padre Yves Congar, si legge in proposito nel primo paragrafo del II cap. della Costituzione sulla Chiesa: «il popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo» (LG 9).

La presa di coscienza della secolarizzazione ormai irreversibile, e l’adozione di un atteggiamento di servizio, fu possibile anche per l’apporto dei padri conciliari provenienti dalle Chiese più giovani, dell’Oriente estremo e dell’America Latina, oltre che dei vescovi e teologi mitteleuropei, soprattutto francesi e tedeschi, i quali avevano letto il libro La France, pays de mission? (Francia, terra di missione?), pubblicato a Parigi nel 1943 da due cappellani della JOC, la “Gioventù operaia cristiana”, Henri Godin e Yvan Daniel. Un libro che fece molto discutere, produsse parecchie tensioni e polemiche, ma provocò anche il disincanto di tanti cattolici che si illudevano ancora della sostanziale tenuta della “cristianità”. I due autori presentavano nel volume i dati di un’inchiesta condotta nella periferia di Parigi, dalla quale emergeva una completa estraneità del mondo operaio dal cristianesimo; gli autori ne deducevano una conclusione drastica: o la Chiesa rinuncia completamente alle masse operaie, oppure avvia una diversa metodologia pastorale, non di conservazione ma di vera e propria missione. Lorenzo Milani, quando era seminarista, lesse e tradusse questo libro, mettendolo a disposizione dei suoi compagni, tra i quali il futuro arcivescovo di Firenze, Silvano Piovanelli. A contatto con questi autori, il giovane prete maturò poi quella visione critica nei confronti del “trionfalismo” ecclesiastico che egli mantenne costantemente nel suo ministero. In fondo si può dire che Esperienze pastorali, opera pubblicata nel 1958 ma costruita prima a San Donato Calenzano, è una “versione italiana” del libro francese di quindici anni prima. In quell’opera don Milani prevedeva chiaramente la parabola della secolarizzazione, senza addossarne la colpa al “mondo”, ma attribuendola piuttosto a quella mentalità individualista e anti-evangelica che lui vedeva annidarsi anche nelle comunità cristiane. La sua prospettiva, che anziché rimpiangere “la cristianità” ne decreta la fine e ne prospetta il superamento, è effettivamente anticipatrice del Vaticano II. La Chiesa come “piccolo gregge” che si inserisce nel tessuto sociale con il suo carico di profezia evangelica, è una delle prospettive del pensiero e dell’azione di don Milani, che prepara il terreno al Concilio Vaticano II.

don Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Noantola, vescovo di Carpi e vicepresidente della Cei

don Erio Castellucci

Arcivescovo di Modena-Noantola, vescovo di Carpi e vicepresidente della Cei.

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