La Supiàuna, particolare del gruppo in terracotta di Guido Mazzoni, cripta del Duomo di Modena

Pietra scartata

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Tutto questo discorso prende avvio da un testo dei Carmina Burana, cioè di quella grande antologia di canti medievali contenuta in un codice manoscritto di 112 fogli di pergamena conservato nell’abbazia di Benediktenbeuren, o Bura Sancti Benedicti, e passato in epoca napoleonica alla Biblioteca Statale di Monaco. Si tratta di oltre 300 componimenti per lo più risalenti alla prima metà del ‘200, di argomenti vari (satirico-morali, amorosi, conviviali e altro). Tra tutti questi testi poetici in versi latini o altotedeschi un solo componimento (siglato CB44) è in prosa, sotto il titolo di Initium Sancti Evangelii secundum marcas argenti, in cui non si indica il nome di un presunto evangelista Marco d’Argento, o Argentario, come si trova a volte tradotto, ma i marchi, cioè il denaro. È un testo di dissacrante e amara ironia che, attraverso un continuo uso parodico di citazioni letterali ed echeggiamenti biblici, sferza l’insaziabile e spregiudicata avidità ecclesiastica di denaro e donazioni.

Ne riporto l’incipit, che è il brano da cui è partito questo mio discorso, e che dà già un’idea chiara dello spirito di tutto il componimento. Il testo è questo: In illo tempore dixit papa Romanis: “Cum venerit filius hominis ad sedem maiestatis nostre, primum dicite: ‘Amice, ad quid venisti?’ At ille si perseveraverit pulsans nil dans vobis, eicite eum in tenebras exteriores”. Tradotto: In quel tempo il papa disse ai Romani: “Quando il figlio dell’uomo verrà alla sede della nostra maestà, per prima cosa dite: “Amico, a che scopo sei venuto?”. Ma se quello insisterà bussando senza darvi niente, cacciatelo via nel buio di fuori”.

Faccio notare che in così poche righe ha già cucito insieme almeno 4 o 5 citazioni neotestamentarie e che, se mai sfuggisse, il filius hominis è, secondo il linguaggio dei vangeli, Gesù Cristo stesso. Non si può escludere che l’anonimo clericus con questa espressione volesse indicare semplicemente un uomo, senza particolari connotati (a differenza dei personaggi che vengono introdotti di seguito); ma è difficile pensare che con quel suo linguaggio ammiccante non volesse giocare sull’ambiguità allusiva, che non poteva sfuggire ad orecchie abituate a quella formula evangelica.

La sorpresa di questo incipit mi ha richiamato di rimbalzo la storia del Grande Inquisitore narrata da Ivàn Karamazov nel romanzo di Dostoevskij, quasi che l’uno fosse un inatteso precedente, un’anticipazione dell’altra. Certo, l’invenzione dostoevskijana, con il terribile discorso che l’Inquisitore rinfaccia a Cristo, ha ben altra profondità ed è ben più cupa confronto allo spirito goliardico del testo medievale. Eppure non c’è tra essi una qualche analogia nell’accoglienza contrariata di quell’arrivo importuno e nell’esito di un allontanamento astioso e perentorio?

In entrambi i testi, seppure su piani diversi e con sensibilità distanti, si fronteggiano un vertice istituzionale del potere ecclesiastico cattolico romano e un immaginario Cristo riapparso, che non pronuncia una parola, ma che con la sola sua presenza disturba e minaccia l’ordine delle cose secondo l’interesse del potere.

Ebbene, questo è un quadro di rapporto a due antitetico ripetutamente presente nei vangeli, e più di tutti nel quarto, Giovanni, che è costruito su un continuo scontro polemico e una reciproca accusa. In essi Gesù non resta muto ma interloquisce più o meno animatamente con i suoi avversari, che nei sinottici sono scribi e farisei e, alla fine, capi dei sacerdoti e sinedrio; Giovanni invece generalizza, con evidente pregiudizio, indicandoli sommariamente come i Giudei.

I motivi di dissenso e contrasto tra Gesù e autorità nei tre testi qui considerati (vangeli, testo burano e capitolo dei Karamazov) sono troppo disuguali e disparati e lontani tra loro per essere confrontati; un esame comparato sarebbe un’operazione forzata e inconcludente. Qui mi interessa invece trarre un’altra conclusione, suggeritami dal convergere di tutti e tre i testi verso un identico esito: l’estromissione dell’avversario Gesù, la sua eliminazione, secondo il significato etimologico della parola: uscita forzata di là dalla soglia (il limen), fuori dallo spazio controllato dal potere.

È la sorte che caratterizza a più riprese Gesù nei vangeli (per semplicità elenco senza indicare i singoli passi evangelici): fuori dalla locanda alla nascita, fuori dalla Palestina (in Egitto) nell’infanzia, fuori da una dimora fissa, scacciato fuori da Nazaret, condotto fuori dalla città per la condanna a morte, addirittura dichiarato un giorno dai suoi famigliari fuori di sé; oltre al fatto di essere un predicatore-guaritore fuori dagli apparati ufficiali dell’establishment e dai gruppi politico-religiosi presenti nella società ebraica di allora (sacerdoti, scribi o maestri della torah, farisei, sadducei, zeloti), e oltre alla sua fine fallimentare e ignominiosa, nella estrema e definitiva espulsione.

Essere, o essere messo, fuori è la condizione che lo investe e lo qualifica; ed è la condizione, paradossalmente, per essere riconosciuto come nuovo fondamento, secondo la nitida immagine ripresa dal salmo 118: La pietra scartata dai costruttori / è diventata testata d’angolo; immagine e citazione ripetutamente richiamate in molti testi neotestamentari quale sintesi della riflessione sul destino di Gesù Cristo.

Mi viene in mente, in conclusione, un curioso modo di dire che si usava un tempo nel nostro dialetto modenese, per indicare una cosa o una persona che non contano niente: cal Crést ch’an cmanda, quel Cristo che non comanda. Sotto l’implicita ammissione che il Cristo ufficiale sia quello che comanda, non potrebbe insinuarsi una reminiscenza meno trionfalistica e insopprimibile di una figura di perdente che agisce senza clamore nella storia ed elude gli schemi e le preclusioni del potere dominante?

Guido Mazzoni, “La Madonna della pappa”, Guido Mazzoni, 1480-1485 circa.

La Supiàuna, che abbiamo scelto come immagine per accompagnare il pezzo di Gianni Zagni, fa parte di un gruppo in terracotta policroma della fine del Quattrocento, esposto nella cripta del Duomo di Modena, che rappresenta un Gesù bambino in braccio a Maria. In dialetto modenese “supiàuna” significa “soffiona”, perché la servetta soffia su un cucchiaio di pappa bollente che sta per dare a Gesù. Per questo il gruppo è conosciuto anche come “Madonna della pappa”. Ma il centro propulsore dell’azione non è la Madonna, non è Gesù e non sono nemmeno i due ricchi e devoti borghesi inginocchiati in primo piano, committenti dell’opera. Tutto sembra prendere vita dal soffio amorevole della servetta. Se siete di Modena, andate a rivedere le statue nella cripta del Duomo.

La Supiàuna, con quel viso senza età, quell’arcata sopracciliare che rende la sua espressione un po’ ottusa, forse ritardata, la veste stracciata all’altezza del gomito, entra a pieno titolo nella categoria, analizzata da Zagni, della pietra di scarto, “una figura di perdente che agisce senza clamore nella storia ed elude gli schemi e le preclusioni del potere dominante”. (Touki Bouki)

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