Un anno di Touki Bouki

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Appena un anno fa è nata una “strana” rivista nella Scuola Frisoun, una piccola scuola di italiano per stranieri di Nonantola in provincia di Modena. Strana fin dal sottotitolo “Strani, straniere e stranezze”, che l’associazione che la pubblica, Giunchiglia-11, definisce almanacco: “Touki Bouki”. Durante tutto l’anno sono usciti sei fascicoli, compreso il numero zero e uno speciale senza numerazione di fine anno dedicato a Ivan Illich, tutti molto diversi tra loro, proprio come dei raccoglitori di cose incontrate lungo il cammino, a volte sorprendenti: due numeri dedicati al carcere, uno alla musica, altri due sul viaggio. Di solito questi esperimenti editoriali – come bollettini, riviste e testimonianze legate al lavoro sociale con gli stranieri – hanno un valore laboratoriale per chi li fa, assistiti e assistenti, ma sono di difficile leggibilità esterna. Oppure sono prodotti curatissimi e bellissimi, soprattutto graficamente, per arruffianarsi i donatori, ma sostanzialmente insinceri. Al contrario “Touki Bouki”, che viene definito anche uno “zibaldone di storie, aneddoti, segnalazioni utili (e inutili), interviste, fotografie, mappe, disegni”, mantiene la fattura artigianale del piccolo gruppo (ci sono segnalazioni, consigli, disegni, parti tradotte in altre lingue), ma riscontra un notevole interesse anche da parte di operatori esterni e osservatori sensibili. Così una piccola realtà di provincia si è diffusa anche nelle scuole di Roma e Milano, tra insegnanti e altri stranieri. La direzione della rivista è di Giorgia Ansaloni, Luigi Monti, Slobodan Miletic e Chiara Scorzoni. I collaboratori sono tanti e sempre diversi, ma il nocciolo duro è formato dagli studenti e studentesse della scuola con i loro insegnanti. La testata è disegnata da Luca “Luk” Dalisi.
Ho chiesto a Luigi Monti di rispondere ad alcune domande per presentare “Touki Bouki” ai lettori di “Altreconomia”. Con Luigi ci conosciamo da più di dieci anni, quando avviammo i primi numeri della rivista “Gli asini” che era nata dallo “Straniero” di Goffredo Fofi, all’epoca bimestrale e oggi tornata con quella cadenza in nuova serie. (Nicola Villa)

Quasi un anno fa avete dato alle stampe il primo almanacco di “Touki Bouki. Strani, straniere e stranezze a Nonantola”? Ci spieghi l’origine di questo nome e del sottotitolo?

In lingua wolof “touki bouki” significa “il viaggio della iena” ed è un omaggio a un geniale regista senegalese, Djibril Diop Mambety, che ispirandosi a una figura della tradizione orale dell’Africa occidentale, Bouki, la iena, intitolò così il suo primo lungometraggio. Prodotto nel 1973, Touki Bouki racconta la storia di Mory e Anta, due giovani amanti insofferenti della vita che conducono a Dakar e che decidono di partire clandestinamente per l’Europa. La vicenda ruota tutta attorno ai tentativi sfacciati e bricconeschi di ottenere i soldi necessari ad acquistare il biglietto del traghetto che li deve condurre in Francia. Un racconto di emigrazione ironico, imprevedibile, vitale, costruito con un linguaggio cinematografico spiazzante, irrispettoso degli schemi sociologici con cui solitamente guardiamo al tema delle migrazioni.

Quando abbiamo deciso di fare un almanacco insieme agli studenti, agli insegnanti e agli amici della Scuola Frisoun che offrisse uno sguardo straniero su Nonantola (straniero perché proprio di chi proviene da luoghi lontani, ma anche di chi, come Mory e Anta, si sente un po’ straniero in patria) abbiamo pensato che porci sotto il nume tutelare di Touki Bouki potesse aiutarci ad aggirare gli stereotipi attraverso cui molti bianchi (ma anche molti “neri”) guardano al tema dell’immigrazione, ingabbiandolo spesso in una narrazione folcloristica, identitaria o vittimistica. Per le stesse ragioni, il sottotitolo sta lì a ricordarci che il tentativo del nostro almanacco è quello di esplorare il concetto di “straniero” nella sua accezione di stranezza e di diversità, non come sinonimo di “oppresso”.

Ci puoi raccontare in breve la storia dell’associazione Giunchiglia-11 e della Scuola Frisoun? Puoi accennare anche delle peculiarità del vostro territorio nonantolano e modenese, in rapporto anche ai flussi migratori?

Come in tutta la provincia di Modena, anche Nonantola ha una percentuale di stranieri che supera il 10% della popolazione: 1717 su circa 16mila residenti. Si tratta di un’immigrazione di lungo corso: i primi e più consistenti arrivi hanno preso avvio a partire dagli anni Ottanta, quando il tessuto produttivo, in particolar modo metalmeccanico, attirava molti giovani lavoratori, soprattutto dal Ghana e dal Maghreb. L’ultimo e più recente flusso si deve all’“incendio” del Nord Africa dovuto alle rivolte in Egitto, Libia e Tunisia a seguito del quale anche a Nonantola sono iniziati ad arrivare i cosiddetti migranti forzati (profughi e richiedenti asilo), flusso che fino ad allora aveva interessato quasi esclusivamente i capoluoghi di provincia. In mezzo a queste due ondate, gli arrivi sono sempre stati piuttosto costanti, in gran parte frutto del ricongiungimento con i propri familiari che vivevano da anni sul territorio di Nonantola.

Se dalla crisi del 2008 e fino alla pandemia il problema principale era quello della disoccupazione, adesso che il mercato del lavoro sembra essersi rimesso in movimento (seppur nella giungla dei contratti a termine e nella precarietà più assoluta) i problemi che i nostri studenti portano a scuola più frequentemente sono da un lato l’estrema difficoltà a trovare affitti dignitosi e a prezzi proporzionati al loro stipendio, dall’altro l’improvvisa accelerazione della burocrazia digitale delle istituzioni pubbliche, che genera l’esclusione di fasce sempre più ampie di popolazione e uno spreco impressionante di tempo, intelligenza e umanità (oltre che di capacità di organizzare buoni servizi) in chi si trova da una parte e dall’altra del pc (o più spesso del telefono). A questo aggiungerei l’evidente affanno di una scuola che, nel suo complesso, non garantisce a molti studenti stranieri un effettivo diritto all’istruzione. E lo fa in una forma nascosta e subdola, inserendo ad esempio sistematicamente i ragazzini stranieri neoarrivati in una classe, a volte due, inferiore rispetto all’età e orientandoli altrettanto sistematicamente verso istituti professionali, senza tener conto di doti, desideri, capacità effettive di ognuno.

In un’epoca in cui gli enti locali appaltano al privato sociale quasi tutti i servizi che comportano relazioni dirette con i propri cittadini e quel poco che conservano lo gestiscono quasi totalmente attraverso portali e piattaforme online, a Nonantola resiste, per ora, una scuola di italiano per adulti e minori stranieri, gestita direttamente dall’amministrazione comunale attraverso il suo Centro intercultura. Si chiama Scuola Frisoun (“friggione”, in dialetto modenese, un piatto tipico di queste parti) e io e altri ci lavoriamo come insegnanti ed educatori attraverso una piccola associazione che si chiama Giunchiglia-11 (dal nome di uno dei protagonisti di Comica finale, di Kurt Vonnegut). Oltre un centinaio di iscritti ogni anno, due corsi di lingua, un percorso socio-educativo per minori neo-arrivati, un corso propedeutico alla scuola guida, un corso di alfabetizzazione digitale, il tutto portato avanti in un’ottica di lavoro di comunità. Se qualcuno volesse farsi un’idea più precisa, qui può trovare i report di fine progetto degli ultimi anni che ci sforziamo di redigere sempre con molta cura.

Detto ciò, non ho idea di quanto questa situazione potrà durare: per il Comune perché gli stranieri, sul mercato elettorale, non sono particolarmente redditizi, per noi perché la riforma del terzo settore e la trasformazione dell’associazionismo in “impresa sociale”, attraverso un appesantimento burocratico ormai insostenibile, stanno spazzando via tutti i piccoli gruppi, i soli che, a determinate condizioni, possano interpretare il lavoro educativo e sociale anche in chiave politica e critica.

È molto interessante che la redazione sia composta da studenti della scuola di italiano per stranieri e dai loro educatori ed educatrici. A volte ci sono numeri monografici – come quelli dedicati a un laboratorio sulla Musica e uno dei primi sul Carcere – mentre altre ci sono numeri più misti con racconti di vita. Come decidete il “timone” di un numero?

Il nucleo redazionale è composto da quattro insegnanti della Scuola Frisoun, tra cui un ex studente bosniaco, ingegnere di formazione, che si occupa dell’impaginazione e della versione online. Insieme cerchiamo di coinvolgere una redazione allargata, molto instabile e molto variabile, fatta di una dozzina di studenti stranieri, giovani e adulti, della scuola di italiano.

Da Freinet in avanti, la creazione di giornalini scolastici è una pratica tradizionale dell’educazione attiva. A volte però il limite di queste pubblicazioni è di essere significative e “leggibili” solo per la ristretta comunità (classe o scuola) che li redige. Noi stiamo cercando di pubblicare qualcosa che sia di potenziale interesse per chiunque (o almeno per chi insegna, per chi lavora con gli immigrati, per chi vive a Nonantola, per chi è incuriosito dalle storie strane). Il rischio opposto è quello di confezionare dei testi difficilmente fruibili dai propri studenti. Noi siamo ancora lontani dall’aver trovato un compromesso che ci soddisfi, però è in quella direzione che ci sforziamo di andare.

Per quanto riguarda i temi e i timoni, si può dire che abbiamo un piano, ma non abbiamo un programma. Non abbiamo un programma, un po’ perché non disponiamo della struttura redazionale necessaria e un po’ perché, non avere un programma a cui rendere conto, forse, consente di leggere con più autonomia e libertà i conflitti, i problemi, le possibilità che riguardano gli stranieri, i contesti in cui vivono e le persone che con gli stranieri lavorano.

Seguiamo per lo più delle piste a partire dalle storie che i nostri studenti ci portano a scuola o che noi portiamo loro. Come nel caso del pezzo che apre il numero zero, l’incredibile storia d’amore tra un ex detenuto che ha finito di scontare una lunga pena alla casa circondariale di Modena, e una ex suora, scappata da un convento lombardo all’età di 75 anni. Una storia fatta di niente, ma raccontata con dettagli così vividi da sembrare la sceneggiatura di un film, a partire dai nomi dei due protagonisti: Angelo e Angelica. Da questa storia è nata l’idea di dedicare i primi numeri di “Touki Bouki” al tema del carcere. E così nel primo numero, al racconto di “evasione” di Angelo e Angelica, abbiamo affiancato la testimonianza, sofferta e leggera al tempo stesso, di tutte le prigionie che un nostro studente eritreo ha subito, senza aver mai commesso alcun reato, in Sudan, nel Sinai, in Egitto e in Etiopia, durante il viaggio che l’ha condotto in Europa (Un terzo della vita).

E ancora il racconto del carcere volontario che Eliseo Zoboli, detto “il cino”, capolega bracciantile e assessore della Partecipanza agraria di Nonantola, si autoinflisse nel 1926 in spregio alla violenza del fascismo agrario locale, ritirandosi nella torre municipale del paese. Non ne uscì più fino alla morte, sopraggiunta dopo sedici anni, nel 1940. Una storia che racconta al contempo delle condizioni dei braccianti agricoli di inizio secolo, condizioni che hanno tratti di grande somiglianza con quelle dei lavoratori stagionali di oggi e che per questo, con l’aiuto di alcune redattrici straniere, abbiamo tradotto in ucraino e punjabi, nella speranza che qualche lavoratore pakistano, rumeno o ucraino vi si potesse rispecchiare.

Il tema delle prigioni è tracimato anche nel secondo numero che contiene, come articolo d’apertura, una lunga conversazione che due volontari storici del carcere di Modena hanno tenuto con alcuni studenti della Scuola Frisoun. Non credo di esagerare nel pensare che si tratti di una delle cose più interessanti che si siano lette ultimamente sul tema del carcere. Articolo che abbiamo voluto tradurre in arabo data l’altissima percentuale di detenuti stranieri, il 60% circa, del carcere di Modena, la maggior parte dei quali di origine maghrebina.
Ecco, questo è un esempio del modo con cui tentiamo di seguire le piste tracciate dalle storie che incontriamo alla Scuola Frisoun.

Di solito il tono delle narrazioni che coinvolgono gli stranieri nel nostro paese oscilla tra il paternalismo e il tremendismo, due vizi italiani, sia per commuovere che per dare un metaforico cazzotto in faccia a chi legge. Questo non è il caso di Touki Bouki: vi siete interrogati su quale dovesse essere lo stile generale dell’almanacco?

Mi fa piacere che tu abbia colto il timbro di fondo che tentiamo di dare agli articoli di “Touki Bouki”. Quando abbiamo presentato il progetto a una fondazione caritatevole inglese (The Canbrick Charitable Trust) e al bando dell’Otto per mille della Chiesa Valdese (benemeriti valdesi!), l’abbiamo definito un “giornale di comunità”: nei progetti, si sa, bisogna calcare un po’ la mano con la retorica, i nobili propositi e uno stile alla De Amicis che enfatizzi l’oppressione a cui il progetto (e i suoi finanziatori) mirano a porre rimedio. Ma nei primi mesi di lavoro, ci siamo resi conto che la definizione più consona per il nostro periodico è “almanacco di paese”. Almanacco, perché è uno zibaldone di aneddoti, storie orecchiate qua e là, racconti che sono transitati dalla Scuola Frisoun e che hanno la caratteristica comune di restituire scorci inusuali e bizzarri di Nonantola e di chi ci abita. Di paese e non di comunità perché “comunità” è un termine ambiguo, scivoloso che, considerando il livello di sradicamento e di isolamento in cui ci troviamo tutti, definisce semmai un obiettivo e non un punto di partenza.

Non ci sono editoriali, lo stile si sforza di essere piano, semplice, antiretorico com’erano appunto gli almanacchi di un tempo con i loro lunari, le indicazioni pratiche per gli agricoltori, le previsioni del tempo, i consigli per i salassi, i racconti popolari, le spiegazioni astronomiche. Andando spesso alla ricerca di testi brevi, semplici, ma belli su cui lavorare con i miei studenti, mi sono imbattuto in un almanacco che, da questo punto di vista, rappresenta un modello straordinario: l’Amico di casa renano, curato da Peter Hebel all’inizio dell’800, poco conosciuto in Italia, ma popolarissimo nella Germania di quel periodo, di cui lo stesso Hebel antologizzò i racconti più belli nel Tesoretto dell’Amico di casa renano (ripubblicato qualche anno fa da Quodlibet) molto amato anche da Kafka, Benjamin, Heidegger e Böll. Un bellissimo ritratto di Hebel e del suo almanacco si trova in Soggiorno in una casa di campagna, di W.G. Sebald.

Lo stile antimoralistico di “Touki Bouki” è giustificato dal fatto che le categorie “morali” su cui ci siamo formati noi educatori militanti e a cui, nonostante tutto, molti di noi sono ancora affezionati –educazione, rivoluzione, razzismo, solidarietà, partecipazione, diritti, ecc. – non sono sufficienti, da sole, a comprendere come gira il mondo dell’immigrazione. E soprattutto, in loro nome vengono spesso promosse iniziative politiche, culturali e istituzionali che producono effetti opposti a quelli che dichiarano di perseguire: che istupidiscono, alienano, escludono, sradicano…

A dicembre avete fatto un numero monografico a vent’anni dalla scomparsa del filosofo ed educatore Ivan Illich: Neri Pozza sta ripubblicando tutte le opere ma anche se Illich è molto influente anche nella nostra cultura, la vostra è stata una delle poche iniziative a ricordo. Perché secondo te?

Le ragioni sono tante. Le più banali riguardano la confusione in cui versa la cultura italiana di questi anni. Ma una ragione più specifica a mio avviso è da rintracciare nel fatto che i primi scritti di Illich si muovono su uno sfondo esplicitamente cristiano (come non sarà più per i pamphlet che l’hanno reso celebre e che seguono la rottura, avvenuta nel ’69, con la Chiesa Cattolica). Sfondo che spesso intellettuali e militanti non comprendono fino in fondo o di cui hanno pudore, come non hanno, ad esempio, per la matrice marxista della propria formazione. Eppure sempre di fedi si tratta e andrebbero ugualmente (e laicamente) indagate per comprendere appieno l’influenza che esercitano tuttora sulla nostra cultura e perfino sui nostri comportamenti.

Ma al di là di tutto, le opere complete di Ivan Illich, di cui è uscito il primo volume (Celebrare la consapevolezza) rappresentano un’operazione straordinaria, non solo per l’accuratezza della ricerca filologica sui testi, della loro traduzione e della ricostruzione del contesto storico e culturale in cui furono prodotti, ma perché la cura di Fabio Milana porta in superficie aspetti che di Illich che avevamo sempre trascurato. In particolare, ciò che più interessa a noi di “Touki Bouki”, è la sua idea di interculturalità, parola che pensavamo definitivamente sputtanata da pedagogismi e progettifici e che invece, grazie allo scavo di Milana, in Illich ritrova un’attualità appassionante.

È dall’incontro con il poderoso flusso di immigrati portoricani di New York e dalla missiologia che ne ha tratto che Illich svilupperà il nucleo teorico di gran parte degli scritti di questo periodo (e forse, più in generale, della sua critica alle istituzioni moderne) ovvero il processo di cambiamento che dovrebbe investire, in tutti e due i sensi, le diverse culture entrate in contatto. Come dice Milana, non si tratta semplicemente di integrare l’altro da sé, ma di imparare dall’altro, di arrendersi al cambiamento. Concetti questi che assumono una dimensione molto ampia e arrivano a riguardare tutti noi: nella condizione di sviluppo accelerato in cui ci troviamo da mezzo secolo a questa parte, non siamo in fondo tutti un po’ migranti? Se le istituzioni – scuola, sanità, servizi sociali, sindacati, ecc. – di cui facciamo parte o di cui reclamiamo i servizi sono permeabili a questo cambiamento allora possono aspirare a mantenere una loro ragion d’essere e a bilanciare i nefasti effetti di sradicamento e alienazione prodotti dall’economia finanziaria e dalla tecnologia che ne è al servizio, altrimenti si fanno loro stesse fonte di disintegrazione sociale.

In questo senso, un altro mito sfatato da Celebrare la consapevolezza è la lettura antimoderna di Illich. Questo cambiamento continuo in cui siamo immersi, la modernità appunto, per Illich non è un fattore da combattere e criticare e basta, ma ha anche il ruolo positivo di spaesarci dalle nostre sicurezze, dal nostro controllo della vita e dell’ambiente, conditio sine qua non per cavarci fuori dal vicolo cieco in cui, sul piano politico, culturale, religioso ed economico, sembriamo esserci ficcati.

Dalle riviste dirette da Goffredo Fofi su cui io, come te, mi sono formato (da ultima “Gli asini”, che ha appena dato avvio a una nuova serie) ho imparato l’importanza di controbilanciare lo zeitgeist di ogni epoca: se lo spirito del tempo è informato da un ingenuo ottimismo, allora bisogna farsi cassandre; se, come mi sembra stia accadendo adesso, si incardina intorno a un cinico catastrofismo, allora bisogna sforzarsi di mettere in circolazione visioni vitali e reattive. Per questo abbiamo deciso di chiudere il primo anno di “Touki Bouki” con un omaggio a Ivan Illich, perché pur vivendo un’epoca non meno tragica della nostra (guerra fredda, rischio atomico, Vietnam, ecc.), ne ha saputo trarre una visione autenticamente apocalittica, aperta cioè a una possibilità di “disvelamento”, se non di cambiamento, non quei surrogati di apocalisse, mortiferi e depressivi, che anche noi “buoni”, in sintonia con lo spirito del tempo, rischiamo di smerciare a bassissimo conio.

Come si dice nell’articolo, la testata di Touki Bouki è di Luca “Luk” Dalisi, che non ringrazieremo mai abbastanza: il segno gentile, libero e appassionato con cui in questi anni ha accompagnato le nostre attività, non solo quelle del nostro almanacco di paese, ci ha aiutato a mettere a fuoco l’identità e gli obiettivi di quanto andavamo facendo.

Touki Bouki

Articolo scelto dalla redazione.

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