La risata della iena. Il cinema di Djibril Diop Mambety

17 Marzo 2023

Perché il nostro almanacco di paese si chiama “Touki Bouki”? In parte l’ha spiegato Katia Ferrara nel numero 4 e 5 di agosto e settembre 2022, mettendosi sulle tracce di “Bouki”, che in lingua wolof significa “iena”, protagonista di molte favole e racconti dell’Africa occidentale. Alla stessa figura, una sorta di trikster, imbroglione, divino idiota, si ispirò anche il regista senegalese Djibril Diop Mambety, che nel 1973 intitolò il suo primo lungometraggio Touki Bouki. Il viaggio della iena.

La Cineteca di Bologna, che con il sostegno della Film Foundation di Martin Scorsese ha curato il restauro della pellicola, ha da poco pubblicato Touki Bouki in un cofanetto dal titolo World cinema project – Vol. 1 (che contiene altri quattro film di paesi “il cui patrimonio cinematografico è più a rischio”; costo: 27 euro). Ne abbiamo una copia anche alla Scuola Frisoun di Nonantola disponibile per il prestito. E in queste settimane è possibile vederlo gratuitamente, in lingua wolof sottotitolato in italiano, anche su RaiPlay (QUI).

I cinque minuti dei titoli di testa danno subito l’idea di come sia costruito il film. In sottofondo, una musica tradizionale suonata da un flauto peul (2). Campagna incontaminata e atmosfera idillica. Un ragazzino a torso nudo, fiero e soddisfatto, porta al pascolo una mandria di candidi zebù dalle corna maestose.

La colonna sonora si interrompe, l’inquadratura stacca sulle piastrelle sporche di sangue, fango ed escrementi di un macello di Dakar. Una sequenza quasi insostenibile fatta di zampe spezzate, colli sgozzati, sangue che zampilla, occhi annichiliti dal terrore.

Nuovo stacco. Il flauto ricomincia a suonare. Il giovane pastorello a torso nudo monta l’unico zebù sopravvissuto al macello. Il ragazzino è leggermente ingobbito, la postura non è più fiera, lo sguardo è malinconico e perso nel vuoto. Non è ha più l’aria di un condottiero, ma di un soldato in ritirata.

Altro stacco improvviso e inaspettato della telecamera. Una semi soggettiva inquadra un teschio di zebù installato sul manubrio di una moto che esce smarmittando tra le baracche di un quartiere malfamato di Dakar. Il pastorello è cresciuto, ha perso l’innocenza. Guida la moto in modo aggressivo, sfiora i banchetti del mercato, sgasa in faccia alle persone. Solo i bambini del quartiere, esaltati dal rombo del motore e dalla stranezza del manubrio con le corna, gli corrono al fianco, entusiasti come alla vista di un cavaliere medievale in partenza per la guerra.

Questa struttura anti narrativa, costruita per sequenze giustapposte, ellissi e salti temporali, prepara lo spettatore a una visione ipnotica ma ostica, inusuale, provocatoria: “Penso che sia nostro dovere essere aggressivi. Se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo ‘aggredire il pubblico’, irritarlo, metterlo a disagio, senza sperare in risultati tangibili immediati”. (2)

La trama, al contrario, è molto semplice. Mory e Anta sono due giovani amanti che, insoddisfatti della vita di Dakar, decidono di partire clandestinamente per l’Europa. La storia ruota tutta attorno ai tentativi sfacciati e bricconeschi di ottenere i soldi necessari ad acquistare il biglietto del traghetto che li porterà in Francia.

Mory è uno sfaccendato perdigiorno, furbo, malizioso, sognatore e imbroglione, la iena del titolo, capace di raggirare chiunque per arrivare al proprio scopo. Anta è una studentessa universitaria agguerrita e ribelle, maschiaccio negli abiti e nei modi. Non sopporta le abitudini e le regole imposte dalla zia sguaiata con cui vive. Veste in modo insolito, non fa niente di quello che fanno le altre donne di Dakar. Una coppia di emarginati visti da tutti con sospetto. Ma Mory e Anta stanno bene dove stanno e al tempo stesso non stanno bene da nessuna parte, tranne che con se stessi e l’uno con l’altra.

Tra furti, travestimenti e inseguimenti, i due protagonisti si muovono come una coppia di fuorilegge in fuga attraverso i bassifondi di Dakar, la boscaglia e i suoi baobab, il quartiere coloniale, il porto internazionale, che sembra già Francia. In sottofondo, Joséphine Baker canta in maniera ossessiva e straniante un unico frammento di canzone: Parigi, Parigi, Parigi, è un piccolo angolo di paradiso sulla terra… Ma come tutte le ossessioni, anche quella di Mory e Anta non può trovare soddisfazione: né Dakar né Parigi saranno mai un rifugio e uno spazio sufficientemente vitale per la loro vitalità.

L’ironia poetica e dissacrante di Mambety non risparmia niente e nessuno: non, ovviamente, la violenza dell’oppressione coloniale e della sua eredità di miseria e alienazione, ma nemmeno l’ignoranza e la corruzione della popolazione locale oltre che dei governi nati dall’indipendenza; non la noia e il senso di soffocamento generati dal mito delle radici e dell’identità culturale, ma nemmeno l’illusione della liberazione promessa dalla rivoluzione marxista o dall’emigrazione in Occidente. Illusione da cui lo stesso Mambety all’età di Mory e Anta si era fatto condizionare e a cui aveva tentato di dar seguito raggiungendo clandestinamente Marsiglia, dove però era stato acciuffato e rispedito a Dakar.

Ma l’irriverenza radicale e anarchica del regista senegalese non è intenzionale. Si sprigiona spontaneamente dalla libertà creativa del suo sguardo e di quello dei giovani protagonisti di Touki Bouki. Mambety non vuole insegnare nulla a nessuno, non vuole indicare nessuna via politica o morale all’emancipazione dei deboli, dei marginali, dei dannati: “Voglio solo creare, dare piacere. […] la creatività e le immagini vengono da qualche parte che io chiamo ‘accidente’. Altrimenti è dilettantismo. Se i miei film hanno una motivazione politica, questa non è la mia preoccupazione fondamentale.” (3)

Da quando abbiamo deciso di fare un giornale insieme agli studenti, agli insegnanti e agli amici della Scuola Frisoun che offrisse uno sguardo straniero su Nonantola (straniero perché proprio di chi proviene da luoghi lontani, ma anche di chi, come Mory e Anta, si sente un po’ straniero in patria) ho pensato che porci sotto il nume tutelare di Touki Bouki potesse aiutarci ad aggirare gli stereotipi attraverso cui molti bianchi (ma anche molti neri) guardano al mondo africano, ingabbiato quasi sempre in una narrazione esotica, folcloristica, identitaria o vittimistica.

Per la stessa ragione, il sottotitolo, “Strani, stranieri, stranezze a Nonantola”, sta lì a indicare che il nostro tentativo è quello di esplorare il concetto di “straniero” nella sua accezione di stranezza e di diversità, non come sinonimo di “oppresso”. Da qualche anno ormai è forte l’impressione che le categorie “morali” su cui ci siamo formati noi educatori militanti e a cui, nonostante tutto, molti di noi sono ancora affezionati – educazione, liberazione, solidarietà, partecipazione, giustizia, ecc. – non sono sufficienti, da sole, a comprendere come gira il mondo dell’immigrazione. E soprattutto, in loro nome vengono promosse sempre più spesso iniziative politiche, culturali e istituzionali che producono effetti opposti a quelli che solitamente colleghiamo a quelle categorie: istupidimento, alienazione, esclusione, sradicamento.


(1) Intervista a Djibril Diop Mambety a cura di Nwachukwu Frank Ukadike, The Hyena’s Last Laugh, in Transition 78, vol. 8, n. 2, 1999

(2) Una popolazione dedita alla pastorizia diffusa, come minoranza, in quasi tutta l’Africa occidentale, in particolare nella fascia semidesertica del Sahel fino al confine della foresta guineana.

(3) Citazione tratta da Simona Cella, Cinzia Quadrati (a cura di), Djibril Diop Mambety o il viaggio della iena, L’Harmattan Italia 2019.

(4) Intervista citata.

Luigi Monti

È socio fondatore dell'associazione Giunchiglia-11 Aps, insegna italiano alla Scuola Frisoun di Nonantola, è redattore di "Touki Bouki" e della rivista "Gli asini".

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