Disco di Nebra

Scrutare il cielo

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I miei nonni mi raccontavano spesso che, quando erano bambini, era diffusa l’usanza d’ander a vegg’, che in dialetto modenese significa letteralmente “andare a fare veglia”. Le case più povere non erano riscaldate e chi aveva una stalla ospitava parenti e amici per trascorrere le gelide sere d’inverno in compagnia: come unica fonte di calore la presenza delle mucche, come unico intrattenimento le storie nate sotto le stelle. Sembra il medioevo e invece, a pensarci bene, erano solo pochi anni fa. Non c’era la televisione, il cellulare o altri contenitori tecnologici di storie: ad animare le serate nelle stalle erano i racconti degli uomini e delle donne della campagna, alcuni con radici popolari anche molto antiche.

Del resto, la notte ha sempre ispirato la riflessione, il mito e la fantasia, forse per la sua dimensione malinconica e misteriosa o forse per la sensazione di immobilità e di tranquillità che genera alla fine di una lunga e frenetica giornata; in ogni caso, personalmente ho sempre pensato che sia stata la notte la dimensione propizia al mito, la sua culla, proprio grazie alle stelle e ai vortici di pensieri che certe notti sanno suscitare.

Quei puntini luminosi nella nera cupola che ci sovrasta nelle notti più limpide, che lentamente diventano familiari senza però perdere la loro dimensione di mistero, in qualche modo hanno esercitato un fascino incredibile sull’uomo, dopo che, sceso dagli alberi, ha iniziato a spostarsi e a migrare sulla Terra: di fronte a quella immensità l’uomo ha iniziato a chiedersi il perché di tutte le cose. Lì immobili, le stelle sono state per millenni un libro aperto da interrogare e consultare, come se in qualche modo la Natura, e chi l’ha creata, ci avesse voluto lasciare in cielo un prontuario su come poter vivere in armonia con la nostra condizione di esseri viventi.

C’erano stelle il cui sorgere indicava l’inizio di una cattiva stagione per la navigazione o una buona stagione per seminare; stelle che indicavano le direzioni da seguire; stelle che segnalavano la scansione del tempo nell’anno e tante altre con funzioni diverse. Il rapporto tra l’uomo e le stelle si è fatto così intenso che ad un certo punto anche le stelle sono diventate le protagoniste delle religioni più antiche, andando a toccare forse la dimensione più intima dell’uomo, per cui gli studiosi del cielo non erano solo scienziati, ma anche sacerdoti.

Una delle più antiche testimonianze dell’osservazione del cielo ci riporta al V millennio a.C. con il famoso complesso megalitico di Stonehenge nel sud della Gran Bretagna, ma furono i popoli mesopotamici, nella fattispecie i Babilonesi nel II millennio a.C., a sviluppare per la prima volta una profonda passione per l’astronomia (“la legge delle stelle”): i Babilonesi si diedero le prime leggi in forma scritta (il codice di Hammurabi), e sempre i Babilonesi provarono a trovare per la prima volta una regolarità, una legge, anche nei corpi celesti; furono quindi i Babilonesi a individuare le prime costellazioni, anche se queste furono rese note successivamente con altri nomi dagli antichi Greci.

Questi ultimi legarono le stelle alla loro cultura orale, fatta di miti che in molti casi culminano con il catasterismo (“collocare tra le stelle”). Per la religione greca, infatti, la morte rappresentava la fine di una parentesi felice dell’esistenza, e per questo solo l’azione gloriosa avrebbe immortalato per sempre il ricordo dell’eroe. Affinché tale ricordo vada oltre la fragilità umana, gli dèi del mito decidono spesso di imprimere nel cielo l’immagine imperitura dell’uomo o della donna tragici; d’altronde se il “pianeta” è il corpo celeste che muta e si sposta (da planáomai, “essere vagabondo”, “errare”), la stella rimane fissa nello spazio. Pertanto abbiamo le costellazioni di Ercole, di Orione, dell’Orsa Maggiore, del Cigno e tante altre ancora.

In più “dare un nome” ha il potere di avvicinare ciò che ci sembra lontano ed inafferrabile per renderlo in qualche modo “famigliare”. È il caso della costellazione della Chioma di Berenice, individuata per la prima volta da Conone di Samo (III sec. a.C.), astronomo alla corte dei Tolomei d’Egitto. Berenice era la bellissima moglie del re Tolomeo III, che subito dopo il matrimonio era stato costretto ad andare in guerra in Siria; la regina come voto per propiziare il ritorno del marito, promise ad Afrodite di tagliarsi la chioma di capelli. Tornato allora il re sano e salvo, lasciò la sua chioma sull’altare del tempio di Afrodite Arsinoe. Avvenne però un fatto inspiegabile: la chioma scomparve nel nulla. Proprio quel giorno Conone disse di aver individuato una nuova costellazione, splendente come i capelli della sua regina, e perciò si diffuse la voce che quella fosse la Chioma di Berenice, che gli dèi avevano voluto accogliere nel cielo per ricordare il sacrificio d’amore di quella donna. Come conosciamo questa leggenda? Callimaco, Catullo e Foscolo hanno ricordato l’episodio nei loro componimenti, dando voce direttamente alla chioma di Berenice che si duole per il suo allontanamento dalla sua proprietaria originale:

«Avendo in disegni l’orizzonte tutto veduto, come si muovan
[gli astri sorgendo e calando] (…)
(…) mi osservò Conone nel cielo, di Berenice
ricciolo, che ella votò a tutti gli dèi (…)»
(Callimaco, Aitia,III, fr.110, trad. G. B. D’Alessio)

Giorgia Ansaloni

Giorgia Ansaloni, di Nonantola, nata nel 1999, laureata in lettere classiche a Bologna. È iscritta alla magistrale in filologia classica, ma da molti anni ormai è anche maestra della Scuola Frisoun. Con un lungo percorso scout alle spalle, oltre a studiare manoscritti, le piace camminare in montagna, la compagnia, la musica e vedere posti nuovi.

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