Colantonio, particolare di San Gerolamo e il leone, Museo di Capodimonte, Napoli, Italia, 1445

Androclo e il leone

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La traduzione del francese cinquecentesco di Montaigne, sebbene molto scorrevole, potrebbe essere fuori portata per degli studenti stranieri neoarrivati o con scarsa scolarizzazione. Le strade che si possono percorrere sono varie. La più battuta alla Scuola Frisoun: raccontare una storia, anziché leggerla. Oppure trascriverla in un italiano più semplice – al presente, anziché al passato remoto, frasi brevi e poche subordinate, vocaboli di uso quotidiano, ecc. O ancora, quando ce ne sono a disposizione, scegliere versioni più semplici: della storia di Androclo e il leone ne esistono tantissime, ad esempio quella nell’italiano godibilissimo di Ugo Cornia (La mia vita in ordine alfabetico, La Nave di Teseo 201). Prima della lettura o del racconto può essere utile verificare, magari con l’uso di immagini, che il gruppo conosca alcune parole essenziali alla comprensione del testo. Nel caso di Androclo e il leone, ad esempio: Colosseo, schiavo, spina, grotta, deserto e, ovviamente, leone… Infine, prima di raccogliere le loro “storie di animali”, può essere utile ricostruire insieme la storia che hanno appena ascoltato e verificare che ne abbiano capito i tratti essenziali. Ma la prima esperienza, di lettura o di ascolto, è bene che sia esclusivamente estetica. Il cerchio narrativo che ne seguirà sarà sicuramente più autentico e interessante. (Touki Bouki)


Quanto alla gratitudine (poiché mi sembra che abbiamo bisogno di dar credito a questa parola), basterà questo solo esempio, che Apione racconta essendone stato lui stesso spettatore. Un giorno, egli dice, che a Roma si offriva al popolo il sollazzo di un combattimento di molte bestie straniere, e soprattutto di leoni di inusitata grandezza, ce n’era uno fra gli altri che per l’atteggiamento furioso, per la forza e la grandezza delle membra e il fiero e spaventoso ruggito, attirava su di sé gli sguardi di tutti gli astanti. Fra gli altri schiavi che furono presentati al popolo in questo combattimento di bestie vi fu un certo Androclo di Dacia, che apparteneva a un signore romano di dignità consolare. Questo leone, avendolo scorto da lontano, dapprima si fermò di botto, come preso da stupore, e poi si avvicinò lemme lemme, con aria tranquilla e pacifica, come per volerlo riconoscere. Fatto ciò e assicuratosi di quello che cercava, cominciò ad agitare la coda come i cani che fanno festa al loro padrone, e a baciare e leccare le mani e le cosce di quel povero disgraziato mezzo morto di spavento e fuori di sé. Rincuoratosi Androclo per la mansuetudine di quel leone, e rinfrancato lo sguardo avendolo osservato e riconosciuto, era un piacere singolare vedere le carezze e le feste che si facevano l’un l’altro. E avendo il popolo levato grida di gioia, l’imperatore fece chiamare quello schiavo per udire da lui la spiegazione di un fatto tanto strano. Quello gli raccontò una storia straordinaria e mirabile: «Quando il mio padrone» disse «era proconsole in Africa, fui costretto dalla crudeltà e dal rigore con cui mi trattava, facendomi battere tutti i giorni, a scappargli e fuggire. E per nascondermi al sicuro da un personaggio che aveva una così grande autorità nella provincia, trovai che la cosa migliore era raggiungere i deserti e le contrade sabbiose e inabitabili di quel paese, risoluto, se venisse a mancarmi il mezzo di nutrirmi, a trovar qualche modo di uccidermi. Poiché sul mezzogiorno il sole era estremamente cocente e il calore insopportabile, trovata una caverna nascosta e inaccessibile, mi ci gettai dentro. Subito dopo sopraggiunse questo leone, con una zampa sanguinante e ferita, che si lamentava e gemeva per i dolori che soffriva. Al suo arrivo ebbi molta paura, ma lui, vedendomi rannicchiato in un angolo della sua tana, si avvicinò adagio adagio a me, presentandomi la zampa ferita, e mostrandomela come per chiedere aiuto; gli tolsi allora una grossa scheggia di legno che vi era conficcata, ed essendomi un po’ familiarizzato con lui, premendo la ferita, ne feci uscire il sudicio che vi si era raccolto, l’asciugai e la pulii meglio che potei; lui, sentendo alleviato il suo male, e sollevato da quel dolore, si mise a riposare e a dormire, tenendo sempre la zampa fra le mie mani. Da allora in poi lui ed io vivemmo insieme in quella caverna tre anni interi degli stessi cibi: poichè egli mi portava le parti migliori delle bestie che uccideva alla caccia, ed io le facevo cuocere al sole in mancanza di fuoco, e me ne nutrivo. A lungo andare, stancatomi di questa vita bestiale e selvaggia, un giorno che questo leone era uscito per la sua solita caccia, me ne andai di là, e al terzo giorno fui preso dai soldati che mi condussero dall’Africa in questa città, dal mio padrone, che subito mi condannò a morte e ad essere dato alle belve. A quanto vedo, è stato preso poco dopo anche questo leone, che ha voluto ora ricompensarmi del beneficio e della guarigione che aveva ricevuto da me». Ecco la storia che Androclo raccontò all’imperatore, e che dall’uno all’altro fu resa nota anche alla folla. Per cui a richiesta di tutti fu messo in libertà e assolto da quella condanna, e per volere del popolo gli fu fatto dono di quel leone. Vedevamo in seguito, dice Apione, Androclo condurre con sè quel leone con un piccolo guinzaglio, andando in giro per le taverne di Roma, prendendo il denaro che gli davano, mentre il leone si lasciava coprire dai fiori che gli gettavano, e ognuno diceva incontrandoli: «Ecco il leone ospite dell’uomo, ecco l’uomo medico del leone».

(Saggi, libro II, capitolo XII, p. 433, Bompiani 2014)

Murales sulle pareti di una casa vicino al lago di Bolsena

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