Si racconta che mentre la famiglia di Gesù stava scappando in Egitto per fuggire da Erode, il bambino in braccio a Maria fece fermare l’asinello per raccogliere una briciola di pane che aveva visto per terra. Dalla paraboletta si desume non solo che il bambinello fin da piccolo avesse una vista da dio, ma anche che il pane, per lungo tempo, è stato simbolo di vita e di condivisione.
La sera la mamma in campagna preparava l’impasto con acqua, sale e farina, e vi nascondeva dentro un pugnetto di lievito che aveva custodito gelosamente nella dispensa. La mattina miracolosamente la massa della farina si era gonfiata e trasbordava dalla panareina (1). Prima che il sole nascesse veniva lavorata dalla grama e poi con le sue mani magiche la madre preparava i pani, li segnava con una croce e poi li nascondeva nel forno riscaldato dalle fascine. Chiudeva l’apertura sigillandolo con lo sterco della mucca e aspettava. Dopo un’ora si apriva l’imboccatura. L’aia si riempiva di un profumo dolcissimo che allietava la giornata. Il pane, la pagnotta, il panino, al voltindrè (2)… poche erano le forme. E l’industriosità della rezdora contadina aveva inventato la tigella, il gnocco, la stria e poi il bensone, il pane dolce per le feste. E la pastella. La madre era la sacerdotessa della casa e le sue mani benedette spezzavano e distribuivano il pane alla famiglia e a tutti gli abitanti del cortile: era un gesto eucaristico benedicente. Un simbolo che si è perso in quella piccola ostia bianca che di pane non ha né la forma né tanto meno il profumo.
Il pane si conservava nel tabernacolo della panareina a disposizione di tutti. Durava tutta la settimana e a noi sembrava più buono con il passare delle giornate e… con l’aumentare della fame. Quando io e i miei fratelli andavamo a scuola, la mamma ci dava per merenda un cartoccino di zucchero dove bagnavamo la fetta di pane. E la leccornia rara era una fetta di pane imburrato con una spruzzata di zucchero sopra.
Il pane era solo l’ultima fase di una lunga lavorazione: si dissodava la terra, e poi la si seminava a larghe bracciate. La piantina verde prima dell’inverno si affacciava al sole autunnale in attesa di essere protetta dalla neve e poi la pianta, la spiga verde e il biondo oro della spiga che brillava al sole estivo. La mietitura e la festa nell’aia per la trebbiatura era un grande evento, quando le famiglie del vicinato partecipavano al lavoro e al pranzo conviviale. I poveri potevano andare a spigolare, per raccogliere le spighe sfuggite alla falce. I mulini ad acqua, le prime macchine idrauliche, macinavano il grano e preparavano la farina. E tutto era dono perché bastava una gelata, la siccità o una tempesta per ridurre alla fame la povera gente di campagna che doveva subire le vessazioni dei signori padroni che pretendevano sempre i tre quarti dei frutti della loro terra.
Si pregava così nelle litanie dei santi durante le rogazioni (3): “A peste, fame et bello, a flagello tempestatis, libera nos domine”, “dalla peste, dalla fame e dalla guerra, dal flagello della tempesta, liberaci o Signore”. E per allontanare queste disgrazie il pio contadino il giorno delle palme metteva una croce di foglie di ulivo benedetto su un bastoncino di salice in mezzo ai campi di grano.
Il pane era sacro, non si non si gettava mai: era peccato grave. Si facevano minestre, zuppe, la paneda (4), i crostini e le ultime briciole cadute sotto la tavola venivano beccuzzate dalle galline che giravano liberamente per la cucina.
Conclusioni o curiosità
– Devo confessare un peccato: noi bambini d’inverno nascondevamo i trappolini sotto la neve: emergeva solo un pezzettino di pane. I passerotti affamati mente beccavano, venivano presi nella tagliola di ferro.
– La festa di Sant’Antonio Abate cade il 17 gennaio, a metà inverno, quando le scorte stanno per finire, e il contadino pregava così: “Sant’Antani dal Campanein – angh’è pan e s’angh’è vein – an ghe gran in dal granèr – Sant’antani cum amnia da fer?”: “Sant’Antonio con il campanino, non c’è più pane e non c’è più vino; non c’è grano nel granaio, o Sant’Antonio cosa dobbiamo fare?”
– Il mulino della Scaglia era l’ultimo mulino a Modena dopo che dieci mulini da Formigine alla città avevano sfruttato il dislivello di cento metri del canale di Corlo. Spesso, specialmente d’estate, non c’era più acqua e allora un vecchio asino sul viale del tramonto trascinava la macina. C’era il detto che le madri ricordavano ai bimbi lamentevoli “T’è come al caval dla scaja c’al gh’iva trentasé mel sol sata a la càva”: “Sei come il cavallo della Scaglia che aveva 36 mali solo sotto la coda”.
Note
(1) In italiano “màdia”, mobile rustico costituito da una cassa rettangolare di legno con un coperchio sollevabile a cerniera usato tradizionalmente per conservare la farina e il lievito.
(2) I voltindré erano due pani intrecciati che sembravano due bambini seduti, visti da dietro.
(3) Le rogazioni erano le preghiere che si facevano in primavera nei campi per chiedere un buon raccolto.
(4) Piatto modenese che consentiva di usare il pane vecchio e consisteva in una zuppa di pane secco con burro e parmigiano.
Mi ricorda la mia infanzia in campagna, anche se non vi vivevo tutto l’anno, ma il rito del pane e delle mele nel forno dopo aver cotto il pane o i pomodori al tempo della salsa e quello della mietitura sono ben fissi nella memoria….