Nonantola, dopo il 7 ottobre 2023

4 Dicembre 2024
Umberto Boccioni, "La risata", 1911

“Il mio nome è Barak”. E già questo nome sembra creare confusione nel mio interlocutore. Sono imparentato, in qualche modo, con l’ex presidente degli Stati Uniti, Obama? C’è qualche legame con il deposto presidente egiziano Hosni Mubarak?

La mia faccia è bianca, i miei occhi azzurri, potrei facilmente essere scambiato per irlandese (come mi piacerebbe!).

“E da dove vieni?”, continua il mio interlocutore. Questo potrebbe spiegare il nome. Ma la risposta in genere causa solo più confusione.

“Beh… sono nato in Francia da padre inglese e madre israeliana. Sono cresciuto in Israele e ho conosciuto mia moglie italiana in Egitto mentre studiavo arabo, ci siamo trasferiti in Inghilterra e abbiamo messo su famiglia e alla fine siamo arrivati qui appena fuori dai confini di Nonantola”.

“Ah”, dice il mio compagno. Una lunga pausa e uno sguardo perplesso.

Mi tiro la zappa sui piedi ed elenco i miei passaporti, finendo in una trappola che mi tendo da solo. So che forse può aiutare a calmare la mente del mio compagno, ma allo stesso tempo lo incoraggerà a mettermi in scatole precostruite, pienamente adattate a stereotipi e idee sbagliate: “Ufficialmente sono israeliano, britannico e ora anche italiano”, dico.

Quello che succede di solito a questo punto è che gli occhi del mio compagno strabuzzano. Dalle domande che ricevo spesso subito dopo, posso supporre che si stia chiedendo: “Come è possibile?”, “Si può avere più di due passaporti?”, “È legale?” A questo punto mi sembra di sentire i suoi pensieri: “Come sarà distribuita la sua identità tra questi tre paesi?… Dovrà pure sentirsi più propenso all’uno o all’altro!”. “Ha appena detto: israeliano?! Ah… quindi è ebreo: Occupazione, Palestina libera, Genocidio!”; “Come può mangiare il salame?”; “Deve aver prestato servizio militare… oh… forse è troppo presto per fare queste domande…”

Proprio quando gli occhi ritornano nella loro posizione, di solito è il momento in cui penso tra me e me, con un sussurro di voce, che potrei anche richiedere la cittadinanza austriaca. “Un altro?!.. no, è una specie di scherzo? ”.. Aggiungo poi che mi dispiacerebbe ferire mio padre che crede che mia nonna si rivolterebbe nella tomba se le dicessi che sto facendo domanda per diventare cittadino del suo paese d’origine. Il Paese che ha tradito lei e la sua famiglia durante la Seconda Guerra Mondiale, condannandola all’esilio e, chi non era riuscito a fuggire, alla morte.

Ora, il mio compagno scuote la testa… gli occhi tornano indietro verso l’angolo in alto e di solito è a questo punto che il breve scambio giunge a una conclusione non conclusiva.

Dare al mio interlocutore un elenco di passaporti ha funzionato come un’arma a doppio taglio. Se non avesse trovato il coraggio di sondare il terreno chiedendomi la mia opinione personale sulla situazione in Israele o il mio pensiero su come risolvere il conflitto, ora staremmo parlando di qualcos’altro… meno confuso, meno provocatorio eppure non posso fare a meno di chiedermi cosa abbia iniziato a girare nella sua mente dopo che l’ho lasciato con quel piccolo dettaglio che c’è una parte israeliana in me.

Con la famiglia e gli amici dico che mi diverto a collezionare “passaporti della vergogna”; un insieme di nazionalità che hanno qualcosa di cui vergognarsi: o per il loro passato oscuro e/o per le loro azioni e politiche attuali. (A questo proposito, un passaporto austriaco potrebbe costituire una valida aggiunta alla collezione). A volte, immagino che sia un mazzo di carte simile ai Pokémon. Per completare una mano forte punterei ad ottenere: la cittadinanza americana, russa e nordcoreana… sii mio ospite da aggiungere alla lista infinita dei desideri.

Torno al mio compagno confuso (l’ho lasciato così stordito…), ma soprattutto alle mie paure su ciò che potrebbe pensare di me adesso: sta pensando che io sia una specie di sostenitore dell’apartheid? È giunto alla conclusione che sono un fanatico di destra che uccide bambini per vendetta (forse pensano che tutti gli israeliani lo siano?), o semplicemente un sostenitore del genocidio? Sicuramente qualcuno ignaro della sofferenza delle persone che il suo “paese” sta occupando? Egocentrico nel suo passato di vittima? “Ok fantastico, sappiamo che abbiamo massacrato persone come te negli anni ’40… ma ora basta, sei crudele quanto i nostri antenati fascisti/nazisti!”

O forse il mio compagno sente solo il bisogno di snocciolare una serie di insulti su ciò che il governo israeliano (e quindi il popolo israeliano) sta facendo, finendo per dire che Israele, in realtà, non avrebbe dovuto essere mai esistito.

Gruppo di soldati in visita al sito archeologico di Masada

Ora capisco, dopo 15 anni lontano da Israele, che la maggior parte delle persone che incontro non ha davvero questi pensieri in mente quando parliamo per la prima volta e che essi sono principalmente il frutto delle mie paure interiori, della mia crisi di identità personale. Però ricordo molte conversazioni in cui le persone con cui ho parlato avevano veramente alcune o tutte queste convinzioni e le esprimevano molto presto nel nostro incontro. Almeno hanno avuto il coraggio di dirlo. È successo anche con amici intimi e familiari acquisiti.

Sentir dire che “Israele non sarebbe mai dovuto esistere” mi perfora ancora l’anima, a prescindere da cosa io pensi delle azioni passate e attuali della nazione o se io intenda ritornarci. È come sentirsi dire che neanche io avrei mai dovuto esistere. Nessuno direbbe una cosa così terribile dell’Inghilterra anche dopo tutti gli anni che ha passato a commerciare schiavi, massacrare tribù africane e praticamente rovinare ovunque abbia messo piede. Sicuramente nessuno lo direbbe dell’Italia… non importa il recente passato, il suo diritto ad esistere è dato per scontato.

Respira! Rilassati! È la tua immaginazione! Le persone sono molto più gentili! La conversazione torna indietro, riesco a reprimere le mie paure su ciò che sta pensando il mio compagno riguardo a quella parte israeliana di me in cui mi sono appena intrufolato… Ci concentriamo sulla vita in Inghilterra e perché mai dovrei voler venire e vivere in Italia. (Non ho appena detto che sono sposato con un italiana?). Sì, la frutta e la verdura qui sono fantastiche. Anch’io odio la pioggia in Inghilterra. Adoro il cibo qui. Tortellini e tutto il resto.

Quelli che sono riusciti a reprimere la voglia di iniziare uno scontro verbale, o quelli che sono ancora sinceramente incuriositi dalla mia complessa risposta alla domanda “da dove vieni?” o dalla collezione dei miei passaporti spesso se ne escono con la frase: “Che ricco mix di identità”, “Che meraviglia, sei un vero ‘cittadino del mondo’!”, e magari aggiungono: “Che ricchezza culturale e linguistica”, “Che fortuna per te e i tuoi figli”, “Vorrei che ci fossero più persone come te al mondo!” (Oh, quest’ultimo commento lo ricevo raramente, ma è così lusinghiero!). So che potrebbe essere davvero un complimento, oppure la rivelazione genuina e destabilizzante che forse le persone non dovrebbero effettivamente essere definite in base alla loro nazionalità: magari anche loro stessi proverebbero una libertà esaltante se non fossero solo “britannici” o “italiani” o qualunque sia la singola cittadinanza che detengono.

Con mio disappunto, invece di percepire questi commenti come complimenti o come una genuina gratitudine per l’ispirazione che la mia storia introduttiva porta con sé, mi ritrovo amareggiato. Già, alla (relativamente) giovane età di 45 anni, ho la sensazione che stiano solo mascherando ciò che vogliono veramente dire, cioè tutte quelle cose che ho appena sentito nella mia testa quando i loro occhi roteavano perplessi, dal momento che ho semplicemente menzionato “israeliano”.

Mentre passiamo a parlare di cosa mi piace in Italia e di quale squadra di calcio tifo, sono sopraffatto da tutta questa mancanza di fiducia che ho nelle persone, ma non posso farci niente. Forse non è solo la vicinanza alla nuova sanguinosa guerra. Forse ha più a che fare con gli anni trascorsi a cercare di spiegare, anche se in realtà pochi ascoltano davvero.

Invece di far finta di interessarmi alla questione del calcio, vorrei riprendere da quel “ricco mix di identità” e dire al mio interlocutore che sono cittadino del mondo perché non ho avuto scelta, non perché lo abbia voluto, non perché lo cercassi. È perché io e i miei antenati ebrei siamo stati costretti a farlo. Sono un cittadino del mondo perché non sono affatto un vero cittadino di nessun luogo. Non mi sento a mio agio da nessuna parte, nemmeno nel posto in cui sono cresciuto, quella parte “israeliana” di me a cui non so come reagire quando ne parlo… sì, non ne sono contento neanche io. Sono così cinico e fuori posto che mi sento scomodamente a mio agio (o dovrei dire comodamente a disagio?), ovunque.

Vorrei dirgli che le ferite aperte di guerre infinite, traumi familiari e il costante tentativo di spiegare a me stesso e agli altri come siamo arrivati qui nella storia hanno sviluppato il mio cinismo a un livello tale che tutto ciò che vedo nella nazionalità e nei passaporti è, nella migliore delle ipotesi, una tessera fedeltà che offre qualche sconto in tempo di pace, o semplicemente una polizza assicurativa se le cose si fanno un po’ più scomode. Se e quando inizierà una guerra e le cose si metteranno davvero male (succede sempre così in fretta) noi immigrati, non esattamente modellati sullo stampo nazionale, saremo i primi ad essere squalificati e privati delle nostre “polizze assicurative”, ovvero pieni diritti di cittadinanza. Sarà allora che, se saremo fortunati, riusciremo a richiedere una polizza diversa. Potremmo aver bisogno di elemosinarla, oppure pagarla a caro prezzo o addirittura combattere per ottenerla in una nuova guerra, e magari imparare una nuova lingua lungo la strada. Sarai al nostro fianco quando tutto questo accadrà? Ci sarà qualcuno?

Se avessi tempo e non rischiassi di confondere ulteriormente il mio interlocutore, vorrei raccontargli come da bambino ho assorbito frammenti di storie familiari dall’Inghilterra, dall’Austria, dalla Russia e l’Ucraina, anche dalla Palestina ottomana… prima che tutto iniziasse. Gli parlerei di come in una piccola casa situata sulle colline vicino ad Haifa, vicino ai villaggi arabi, accanto a un caminetto in stile inglese costruito affinché mia nonna sentisse meno la nostalgia dell’Inghilterra della sua infanzia, mio nonno, nato in Lettonia, mi raccontava di sé, giovanissimo pioniere sionista immigrato nei primi anni Anni ’20. Mi parlava dei primi kibbutz che aveva contribuito a costruire, di come due dei suoi fratelli lo avevano reso orgoglioso combattendo nella brigata ebraica contro i nazisti in Italia. Di come aveva perso un fratello nella guerra d’indipendenza del ’48 e la devastazione che questo ha causato alla famiglia. Mio nonno aveva sempre desiderato la pace e la riconciliazione con le nazioni arabe e palestinesi. Vorrei dire che non è sempre stato come sembra adesso, che la gente comune aveva dignità e spesso una visione. Che se cresci con queste storie non vuoi rinunciare alla speranza, anche se pensi che tutto stia andando nella direzione sbagliata. Molti dei miei amici la pensano come me, cioè che il tempo è scaduto, c’è troppo marcio in Israele ma non tutti sono così fortunati da essere riusciti a scappare, come ho fatto io. Che a volte mi sento in colpa per non essere rimasto a combattere, non contro Hamas o Hezbollah, ma per la speranza della pace. Che mi sento in colpa per aver rinunciato a usare l’arabo che ho imparato appositamente per quello scopo. 

E c’è di più…

Ma dirlo tutto in una volta è opprimente e desolante, al limite dell’autocommiserazione. Il mio compagno se ne andrebbe con un sorriso imbarazzato, pensando tra sé e sé, che pazzo furioso ha appena incontrato, probabilmente qualcuno in stato confusionale che soffre di un disturbo post-traumatico…

E a dire il vero, anche se tutto questo ce l’avesse in forma scritta, non sono così sicuro che sarebbe facile da capire.

Panoramica del porto di Haifa dalla finestra della casa in cui ho vissuto quando abitavo lì (in fondo al golfo sulla sinistra si vedono le scogliere bianche di Rosh Hanikra, che segnano il confine col Libano)

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