Cara Marcella, non riesco a parlare di te in terza persona, come se non ci fossi più. Dalle parole dei tantissimi che ti hanno ricordata in questi giorni, è lampante quanto tu ci sia ancora, viva e vitale, nell’eredità intellettuale e umana che hai lasciato a chi ha avuto la fortuna di conoscerti.
Ti ho incontrata quando, dopo anni di lavoro come giornalista dall’Africa prima e dal Medio Oriente poi (per l’“Unità”), e come autrice televisiva (per “Mixer”), eri approdata, già “tumorata”, come dicevi tu, all’Università di Bologna a insegnare Storia e Istituzioni del Medio Oriente. Sono arrivata a frequentare il tuo corso che del Medio Oriente (come tanti altri studenti del resto) non ne sapevo nulla: negli appunti ho scritto “gli accordi di Sespico”, e poi non riuscivo a ritrovarli da nessuna parte perché erano di Sykes-Picot… Mi hai “agganciato” alla sprovvista, un giorno che mi hai visto in aula con una copia di “Internazionale” sotto il quaderno e mi hai chiesto di riassumere l’articolo di Robert Fisk, così, senza preavviso, davanti a tutti. Era nel tuo stile, prendere gli studenti in contropiede. “Piffero”, hai detto, “un cognome originale. Ma io preferisco chiamarvi per nome…” Per te, sono diventata “Elenucci”.
I capelli grigi legati in una coda, gli occhiali al collo e i completi pantaloni-maglia-gilet scuri ti rendevano a tuo modo un’icona di stile. A lezione eri graffiante, magnetica, appassionata: con un’ironia irresistibile sgrovigliavi conflitti, mettevi in luce contraddizioni a manciate senza risparmiare nessuna parte, ci spingevi a chiederci spietatamente catene di perché, sparavi a zero su Huntington e sul suo “conflitto di civiltà”, sulla Fallaci, su chi arrivava con risposte semplici a questioni complicatissime. Un giorno – era l’ottobre 2002 – sei arrivata in aula sventolando due quotidiani con sguardo incendiario: “Due pagine, due intere pagine su ‘quello smutandato’ di Gianni Morandi!”, hai inveito, quando nel nostro altrove infuriava la seconda intifada, Arafat era assediato di proteste, la retorica anti-Saddam si rafforzava e sulla stampa nostrana se ne parlava poco o nulla. Portavi lo sguardo penetrante e diretto della giornalista nel tuo ruolo accademico, così come da giornalista costruivi le tue analisi partendo da una formazione profondamente “accademica” e attenta alle dinamiche politiche dietro agli eventi. Non importava a nessuno (sempre se qualcuno se ne accorgeva!) della maniera “creativa” in cui translitteravi parole dall’arabo o dall’ebraico: tu che non sapevi né l’una né l’altra lingua sapevi però leggere gli eventi, far emergere i punti di vista, trovare i collegamenti meno ovvi con una lucidità disarmante.
Eravamo tutti conquistati: al Campus di Forlì dopo la prima lezione ci hanno fatto cambiare aula perché eravamo troppi, con file di studenti accampati nei corridoi del Padiglione Morgagni in silenzio tombale per sentirti parlare, e siamo finiti a Santa Caterina, una chiesa sconsacrata – ironia della sorte ti ritrovavi a parlare da un ex pulpito quando eri agli antipodi di ogni predicazione. Partecipavi a programmi radiofonici, convegni, conferenze, incontri, presentazioni di film senza risparmiarti; alla Biblioteca Cabral di Bologna tu, Anna Maria Gentili e Elena Tripodi avevate creato un fulcro vivace di ricerca, dibattito, divulgazione. Di libri, ne avevi forse più tu a casa tua della Cabral: soffrivi di insonnia e leggevi (e scrivevi) tantissimo.
Quando, nel mondo post-11 settembre, hanno cominciato a soffiare venti di guerra contro Saddam, ci hai trascinati nella stessa tua irrequietezza di fronte a una copertura mediatica peggio che superficiale di quello che stava succedendo. “I fatti sono fatti”, ci spiegavi: le notizie non esistono, ma sono create, fatte appunto, oppure omesse da chi le scrive. Ne hai fatto nascere un mini-corso, “Media and Conflict”: da Forlì finite le lezioni prendevo il treno e mi precipitavo a Bologna per seguirlo, in quell’auletta dietro la facoltà di scienze politiche che ti faceva sbottare con un sorriso sarcastico “Siamo tra una chiesa e una caserma, alla faccia dell’esercizio del libero pensiero”. Da lì si è sviluppato l’Osservatorio di Politica Internazionale – Media and Conflict sull’Iraq: le categorie di analisi andavano da “armi di distruzione di massa” a “fuffe” e “Fallacismi”. Armati di forbici e fotocopie in un’epoca in cui non tutte le testate giornalistiche erano accessibili da internet, ci sentivamo una piccola avanguardia di pensiero critico. Gli studenti li sapevi conquistare, li sguinzagliavi in lungo e in largo per il Levante (a volte ti toccava anche di andarli a riprendere), andavi controcorrente prendendoli sotto la tua ala in un ambiente universitario malato di “complessi di Medea”, ma soprattutto li aggregavi, alimentavi amicizie e collaborazioni: anche a distanza di anni, raccontavi agli uni degli altri, tenendo in qualche modo legata quella piccola comunità ormai dispersa, che in questi giorni si sta ritrovando nella condivisione del dolore e nella gratitudine.
Ti facevi beffe della nostra sindrome dell’impostore (quel timore di non essere all’altezza, di non essere particolarmente capaci ma solo sopravvalutati) gettandoci nelle sfide più improbabili, e dimostrandoci così che ce la sapevamo cavare meglio di quanto pensassimo; io sono finita due mesi a Ginevra all’Istituto di Studi sullo Sviluppo per preparare la tesi di laurea, e poi dritta al Cairo a imparare l’arabo, con grande costernazione di mia madre preoccupatissima al pensiero di una “ragazzina da sola, in un paese islamico”. Mi sono innamorata del Cairo e pure di un implausibile israeliano che ci ho incontrato: ci sono tornata da tua dottoranda per la ricerca sul campo, calcando la polvere delle strade sterrate delle ‘ashwaiyyat, i quartieri informali, raccontandoti affascinata di come le contraddizioni politiche e sociali avessero preso forma concreta nei mattoni di quello sviluppo urbano solo apparentemente sregolato. In vista del tuo pensionamento, hai coinvolto me e altri tuoi “discepoli” nella docenza, nella preparazione dei sillabi, nella programmazione, negli esami, nelle pubblicazioni, trasmettendoci con naturalezza il tuo metodo di lavoro rigoroso e la tua passione per la divulgazione, sempre mettendoci in prima linea. Avresti voluto che si creasse nell’Università di Bologna un gruppo stabile di ricerca sul Medio Oriente in cui ciascuno di noi potesse portare il suo contributo, dalla storia sociale alla sociologia dei media passando per lo studio dello sviluppo politico, ma in Facoltà hanno prevalso altri ragionamenti, e l’amarezza ti è rimasta fino alla fine. Forse oggi, dopo che le vesti sono state abbondantemente stracciate, qualcuno dovrebbe chiedersi come e perché tra Bologna e Forlì si sia riusciti a distruggere qualcosa di così potenzialmente promettente come il gruppetto di ricercatori che intorno a te, Marcella, si era creato, con persone in gamba e preparate che ci credevano, che si trovavano bene insieme, disposte anche a qualche sacrificio per continuare a fare ricerca e cultura, purché nei limiti della ragionevolezza. La prospettiva di contratti di docenza precari e mal pagati per anni ha spinto tanti ad andarsene altrove.
Nel tuo ultimo periodo su questa terra siamo venuti in tanti ad abbracciarti; parlavi dei tuoi “acciacchi” con distacco, come una cosa che ti è capitata ma che non ti ha mai definita né soverchiata, ed eri straordinariamente serena. Dicevi che di vita ce n’è più di una e non sai mai dove ti porterà la prossima: delle tue, di vite, eri limpidamente soddisfatta e grata l’ultima volta che ci siamo viste e sei stata irremovibile nel voler condividere con me, con una stramba, semplice complicità, il piatto di pasta scotta della refezione dell’hospice. Flaminia Morandi, la tua sorella elettiva che io purtroppo non ho mai conosciuto di persona, mi ha scritto che sei diventata insegnante “da madre”, dopo che la sua maternità aveva risvegliato il materno anche in te. E in effetti hai sempre detto che non hai avuto figli tuoi ma hai avuto tanti altri “figli” grandi a cui hai voluto bene, ricambiata, in cui hai creduto più di quanto non ci credessero loro stessi, e che adesso sono sparsi per il mondo, alcuni ancora a disperarsi per il Medio Oriente, altri a camminare per altre vie ed altri porti ma con una consapevolezza diversa di un pezzo di terra così vicino e così dannato.
Per chi non conoscesse il lavoro di Marcella Emiliani, queste le sue opere più importanti:
Leggenda nera: biografia non autorizzata di Saddam Hussein, Guerini, 2003
Nigeria: Petrolio, forze armate e democrazia, Carocci 2004
Hamas. Prospettive, sviluppi, paure, Il Ponte 2006
Hamas alla prova del governo. La Palestina sull’orlo della guerra civile Il Ponte 2007
La terra di chi? Geografia del conflitto arabo-israeliano-palestinese, con l’introduzione di Gianni Sofri, Il Ponte 2008
Nel nome di Omar. Rivoluzione, clero e potere in Iran”, Odoya, 2008
Purgatorio arabo, Laterza 2011
Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, e dal 1991 a oggi, Laterza 2012
Brava