Sono nato a N’Dokoro, con l’accento sulla prima “o”, a pochi chilometri da Segou, in Mali, nel 1985. Lì vivevo con i miei genitori e Soumaila, mio fratello minore. La mia famiglia aveva un piccolo pezzo di terra che io lavoravo insieme a mio padre e a mio fratello. Quando avevo vent’anni mio padre è morto e dopo poco ho deciso di mettermi in viaggio per cercare un buon lavoro e aiutare mia madre e mio fratello. Ho vissuto a Bamako per un anno, a Ségou per due anni, a Sikasso e a Kayes per un altro anno e poi sono tornato al mio villaggio, dove sono rimasto per altri cinque anni circa. In ogni città un lavoro diverso: bracciante agricolo, muratore, cercatore d’oro…
Ma alla fine, una certa insofferenza e le difficoltà economiche dei miei mi hanno spinto a ripartire. Non avevo una meta precisa, ma questa volta volevo uscire dal Mali. Mi sono trasferito per un anno in Benin, a Cotonou, la città più popolosa del paese. Poi mi sono messo in viaggio per la Libia, con una sosta obbligata di otto mesi ad Agadez, in Niger. In Libia ci sono rimasto circa quattro anni, tre a Sebha e uno a Tripoli.
In Benin ho lavorato come operaio in un magazzino: caricavo e scaricavo cartoni di vestiti per un mercato gestito da un capo indiano. In Niger ho fatto solo piccoli lavoretti di favore per i militari che gestivano un campo profughi (pulivo le loro case e i loro uffici). In Libia ho fatto vari lavori, ma per lo più il muratore. A volte pagavano a volte no. Quando sono arrivato, Gheddafi era già stato ucciso, ma c’era un tale casino che sembrava di essere ancora in guerra.
Ad Agadez c’è un sacco di gente affamata di soldi e molti di loro pensano che le persone come me che attraversano il Niger per andare in Europa siano tutte piene di soldi. Mi è capitato diverse volte, in quegli otto mesi, che uomini col turbante e occhiali da sole mi puntassero addosso un kalashnikov e mi dicessero: fuori i soldi. Io non mi facevo intimorire e rispondevo sempre che in Africa siamo tutti uguali e che di soldi non ne avevo.
Un giorno però, due persone con la moto mi hanno caricato e mi hanno portato via con la forza. Dicevano che parlavo troppo. Quando siamo arrivati in una zona isolata, uno mi ha preso per le braccia, uno per i piedi e mi hanno buttato a terra. Mi hanno messo le mani al collo, mi hanno aperto la bocca e mi hanno ficcato dentro un “kaiò”, un sasso.
Uno di loro ha iniziato a contare in fula. “Uno, due e…” Non sapevano che io capisco il fula. Quando sono arrivati al “tre” ho girato velocemente la testa di lato e così il piede che mi ha schiacciato la faccia non mi ha soffocato del tutto. Era questa la loro intenzione. Mentre giravo la testa, ho messo tutto il sasso dentro la bocca. Uno di loro ha iniziato a schiacciare il piede contro la mia faccia come se stesse spegnendo la cicca di una sigaretta. Quando hanno creduto che fossi morto, hanno preso la moto e se ne sono andati. E invece non ero morto, anche se avevo la bocca e i denti distrutti. Lo stesso giorno ho visto morire due persone per ragioni simili. Erano due nigeriani. Gli hanno sparato a bruciapelo.
Quando finalmente ho incontrato qualcuno, mi hanno chiesto che cosa fosse capitato. La bocca mi faceva male, non riuscivo a parlare. Sono riuscito a rispondere soltanto “kaiò”. Loro hanno capito e mi hanno portato al campo dei militari. Ho spiegato loro quello che era successo. Un militare (non so se fosse un dottore o un infermiere) mi ha “ripulito” la bocca. Sono rimasto lì un mese. Mangiavo solo zuppe e roba tenera.
Anche in Libia capitano cose di questo genere. Quando vivevo lì, c’era molto lavoro, ma i ragazzi libici non volevano lavorare. Molti di loro preferivano rubare e fare rapine. Quando trovavano qualcuno che gli sembrava adatto dicevano Asma tal! O Asma boy! Che vuol dire Fermati! Vieni qua! E poi ti chiedevano: “Ce l’hai un lavoro? Se vuoi io ne ho uno per te. Andiamo.” Ti caricavano in macchina, ti portavano in una casa dove c’erano dei loro amici armati e ti toglievano tutti i soldi che avevi addosso. E poi ti obbligavano a telefonare a casa, a tuo padre o a tua madre, e a farti mandare altri soldi. A volte ti picchiavano o ti sparavano alle gambe. Un mio amico è stato ferito a tutte e due le gambe. Vive ancora là ed è rimasto zoppo. In Libia mi hanno perquisito molte volte, ma quando vedevano che non avevo soldi, mi lasciavano andare via. Il casino era se dicevi che non ne avevi, ma perquisendoti trovavano dei soldi nascosti. Allora erano guai.
I primi soldi che ho guadagnato in Libia li ho mandati a mia madre. Gli altri li ho messi da parte per pagare chi mi ha portato in Italia. Tanti mi parlavano bene di un tipo, ma non mi dicevano dove abitava. Alla fine mi hanno dato un numero di telefono (parlava inglese, francese, bambara e altre lingue). Non so il suo nome, lo cambiava ogni settimana. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto di andare in un posto a una certa ora. Lì ho trovato della gente che mi ha fatto salire su una barca insieme ad altre 150 persone circa. Venivano dal Ghana, dal Senegal, dal Mali, dal Gambia, dalla Tunisia… Non c’erano donne e bambini.
Il viaggio è stato lungo, ma piuttosto tranquillo. C’è stata un po’ di agitazione solo quando abbiamo avvistato una nave italiana. Dopo quattro giorni di navigazione, verso le 6 del pomeriggio, sono arrivato a Trapani. Era il novembre del 2017. Sono rimasto a Trapani per due settimane, altre due settimane a Bologna e poi direttamente a Nonantola.
Da qualche anno lavoro in una stalla vicino a Nonantola. Con il latte delle mucche producono il parmigiano-reggiano. Ma io mi prendo cura degli animali, mi occupo di una quarantina di mucche. Insieme a me lavorano circa venti persone, quasi tutte straniere: indiani, gambiani, guineani, senegalesi, tunisini.
Mi piace lavorare fuori dagli stalloni, con i vitelli. Preparo il biberon per i vitelli più piccoli, controllo il colostro, quel latte giallo e grasso che la vacca produce durante il parto e che fa molto bene ai piccoli e porto secchi di latte per i vitelli più grandi. Mi occupo anche delle vacche gravide e le aiuto a partorire. Ieri sono nati due vitelli.
Non ho finito il mio “programma”. Voglio affittare una casa più grande, andare in Mali, sposare Saly e appena possibile portarla qua. Non ci siamo mai incontrati. Lei mi conosce, ma io non me la ricordo, perché quando ero in Mali era ancora piccola. L’ho vista solo in video, ma è bellissima.
(Dichiarazioni raccolte da Luigi Monti)
Insieme agli amici di “Anni in fuga” abbiamo lanciato una campagna per raccogliere fondi che permettano a Zakaria di curarsi la bocca e i denti. È necessaria una riabilitazione completa di entrambe le arcate dentarie per i danni causati dalle violenze subite in Niger. Un dentista nonantolano che lavora a Modena si è offerto di curarlo gratuitamente, ma l’intervento sarà lungo e costoso. I costi per i materiali, le attrezzature e l’uso del laboratorio raggiungono gli 8mila euro. Una spesa alla quale Zakaria è pronto a partecipare con una quota mensile del suo stipendio, ma che farebbe fatica a sostenere da solo.
A QUESTO INDIRIZZO la pagina PayPal da cui si può fare una donazione.
Abbiamo tradotto la sintesi della storia di Zakaria in diverse lingue, così da coinvolgere i cittadini stranieri che volessero aiutarlo:
per il TURCO la traduzione è di Şerife e Gulsima Aykac
per l’INGLESE, la traduzione è di Katia Ferrara
per il BAMBARA, la traduzione vocale è di Moriba Bagayoko
per lo SPAGNOLO, la traduzione è di Nadia Manuela Rocha
per il FRANCESE, la traduzione è di Chiara Scorzoni
Provvederó al più presto a contribuire. Immagino che la brutta storia di Zakaria bon sia, purtroppo, neanche delle peggiori, dato che lui, almeno, la può raccontare da un posto sicuro quale la nostra ricca e speriamo accogliente pianura emiliana! Un abbraccio e spero di vedere presto il tuo sorriso Zakaria
Andrea, Berlino