In punta dei piedi

19 Febbraio 2024

Sono entrata in punta di piedi nella tua vita, una domenica mattina, quando sono venuta in ospedale con mia sorella Consuelo che solitamente veniva a trovarti insieme a mia madre Patrizia.

Sono venuta per salutarti, per farti un po’ di compagnia.

Ci eravamo conosciuti tanti anni prima quando eri arrivato a lavorare alla Special Formaggi e mia mamma lavorava lì insieme a te e io passavo di lì di tanto in tanto con mio figlio.

Del giorno in cui ci siamo conosciuti ricordo che eri impegnato a sistemare il magazzino e lo facevi sorridendo e scambiando battute con i colleghi mostrando sempre la tua solarità. La stessa solarità che hai conservato anche nel periodo difficile che hai dovuto affrontare.

Quando dall’ospedale hanno comunicato che la malattia era a un punto di non ritorno e che non c’erano più altre cure da tentare, nell’ottobre scorso ti hanno trasferito all’hospice a Castelfranco Emilia, e da quel momento, grazie a orari più lunghi per le visite, ci siamo organizzati affinché ogni giorno tu potessi avere qualcuno di noi con cui scambiare quattro chiacchiere.

Andrea passava al mattino o verso sera, mia mamma a giorni alterni, io e Consuelo in giorni diversi a seconda delle disponibilità lavorative.

Dalla mia prima visita all’Hospice, parlando del più e del meno e di ciò che stavi guardando in Tv, ti è scappata qualche parola in inglese e così, conoscendolo anch’io, ti ho seguito e abbiamo iniziato a parlare un po’ in italiano e un po’ in broken english, come ci piaceva chiamarlo dato che nessuno dei due lo parlava perfettamente. Un inglese un po’ rotto, imperfetto.

Un giorno stavi guardando il telegiornale e la notizia del giorno erano gli sbarchi a Lampedusa. Hai iniziato a parlarmi della tua storia. Di quando sei partito dalla Nigeria per raggiungere un tuo amico di infanzia in Libia. Raccontavi che allora, cosa che mi ha molto colpito, Gheddafi distribuiva il necessario per sopravvivere a tutti: latte, riso, farina e altri generi di prima necessità. Però da lì sei dovuto scappare a causa della guerra. E ad ogni tappa del racconto ripetevi: “Quando non andava più bene, mi dicevo: ok, devo spostarmi, fisso l’obiettivo e parto”.

Quando mi hai raccontato che eri arrivato a Lampedusa il 28 maggio del 2011 ti ho detto: “Ma davvero? Io ho adottato mio figlio il 28 maggio, però del 2008! Che coincidenza!” L’abbiamo considerata una data fortunata per entrambi.

Che ridere quel giorno quando stavi guardando “Forum” e ti sei arrabbiato per come si comportava il giudice! E che faccia che hai fatto quando ti ho detto che non era un vero processo ma che era solo una trasmissione televisiva con attori non professionisti! Non ci volevi credere. Guardavi lo schermo e poi guardavi me e dicevi: ma davvero?

E che tenerezza quando mi hai raccontato della tua infanzia, che hai trascorso con tua nonna perché tua madre era andata a vivere in un’altra città. Hai aggiunto che da bambino eri un po’ birichino. Era lei che ti aiutava con i compiti e solo quando li avevi finiti ti dava il permesso di uscire a giocare con gli amici. Hai ricordato che era molto dolce ma anche molto severa e hai aggiunto che se non rispettavi gli orari ti veniva a cercare in strada.

E io ti ho raccontato di mio figlio, della sua testardaggine, di quel suo sentirsi già grande e autonomo, e tu mi dicevi: “Piano, piano…. Tu digli ogni giorno devi fare così e non così e vedrai che prima o poi ti ascolterà; vedrai che capirà… L’importante è fissare l’obiettivo e poi andare avanti piano piano… Vedrai che andrà tutto bene”.

Piano Piano…

L’ultimo giorno in cui ci siamo visti, quando sono entrata in camera stavi pregando con Rachel al telefono e mi hai fatto cenno di restare. Sono rimasta un po’ distante, vicino alla finestra. Era autunno, anche se c’era caldo, e il vento staccava molte foglie dagli alberi. Quando hai concluso la telefonata e in broken english ti ho detto: “Stavo guardando le foglie cadere dagli alberi. Sembra una danza”, hai risposto: “Eh… è il potere di Dio… le sue meraviglie”.

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