Quando si decide di fare un viaggio in un paese straniero, con una cultura e delle abitudini quotidiane così diverse dalle nostre, è molto importante scegliere la giusta compagna di viaggio. Io e Maria Chiara siamo compagne di danza africana, ma non abbiamo mai viaggiato insieme. Abbiamo una grande differenza d’età e una diversa situazione personale, ma entrambe avevamo una gran voglia di fare una vacanza in Senegal: per lei la prima volta, per me la quarta volta. Avevamo degli amici senegalesi come punto di riferimento in caso di bisogno, ma abbiamo scelto di essere, il più possibile, autonome e indipendenti, anche se questo ha creato disappunto nei nostri amici che ci sconsigliavano di andare in giro da sole in quanto donne e bianche. Purtroppo non siamo riuscite a completare il programma che ci eravamo proposte, in parte perché i giorni di ferie sono sempre pochi e in parte per colpa dei tempi africani: quando ci si deve spostare non si sa a che ora si parte e non si sa se e a che ora si arriva!
Quello che posso dire con gioia è che è stato un viaggio intenso, ricco di emozioni: abbiamo visitato tanti posti, anche dove raramente vanno i turisti, come l’interessante museo IFAN di Dakar dove al nostro ingresso hanno iniziato a spolverare le teche appositamente per noi; abbiamo imparato a contrattare i prezzi (una prassi consolidata, quindi d’obbligo) di ogni cosa, dai taxi (il mezzo di trasporto più utilizzato), agli acquisti; abbiamo conosciuto persone interessanti, disponibili e gentili e altre invece particolarmente insistenti e appiccicose; abbiamo camminato nelle strade di sabbia con perenni lavori in corso e smog irrespirabile e visitato parchi naturali di una bellezza emozionante.
La nostra idea iniziale era di fare una vacanza di piacere, visitando più luoghi possibili per conoscere la cultura, le tradizioni, le abitudini, il cibo, la musica e le danze di un paese così affascinante, ma il “caso” ha voluto che diventasse anche una vacanza solidale. Per caso abbiamo conosciuto qualche mese fa un musicista senegalese che abita a Torino, Abou Samb, che ci ha parlato della situazione difficile della scuola del villaggio di Gandé, con cui Abou collabora già da un po’ di tempo. Abou è una persona attenta ai problemi sociali, con particolare sensibilità nei confronti dei bambini; con le sue semplici parole non ha avuto difficoltà ad avere la nostra attenzione : “So cosa significa essere bambino in Senegal e quali sono le difficoltà che si devono affrontare, per questo vorrei provare a creare delle opportunità per questi bambini”. Ancora per caso abbiamo parlato del progetto solidale alle amiche del corso di danza. L’interesse da parte loro è stato immediato, così abbiamo deciso di organizzare una cena di raccolta fondi per Gandé, che si è svolta presso la sede dell’associazione “Anni in fuga” di Nonantola. La partecipazione e i contributi sono stati sorprendenti. Ci è stato suggerito l’acquisto di materiale scolastico, medicinali e abbigliamento per bambini: abbiamo riempito 3 valigie da 23 kg che io e Maria Chiara abbiamo consegnato personalmente alla scuola di Gandé.
Così un mattino presto – in Senegal significa non prima delle 9 perché fin verso le 8 non ci si vede – è venuta a prenderci un’auto per accompagnarci a Gandé. Abou ci ha presentato un suo amico, Papa Lass, che come mestiere fa il modello (mannequin) e ci ha mostrato delle sue foto artistiche di cui va particolarmente orgoglioso. Finché la strada era asfaltata siamo andati abbastanza spediti e comodi, ma quando siamo arrivati allo svincolo per il villaggio di Gandé, la strada è diventata una pista sulla sabbia dove si viaggiava a vista e si doveva prestare particolare attenzione, e di fatti ci siamo insabbiati e siamo dovuti uscirne a spinta!
Dopo diversi chilometri di savana, sabbia di colore rosso ruggine, alberelli di acacia e piccoli cespugli, capre di proprietà lasciate allo stato brado, siamo arrivati al cartello di legno con la scritta di vernice sbiadita “Gandé”. Il villaggio non sembrava grande e l’impressione è stata che fosse in mezzo al nulla. Scendendo dall’auto non abbiamo potuto che notare il tappeto di plastica abbandonata: sacchetti , bottiglie, borsine… Purtroppo questo non ci ha sorpreso perché è una costante in tutte le zone abitate del Senegal: la plastica è abbandonata ovunque, lungo le strade, sulle spiagge e persino dentro ai pozzi dove le donne raccolgono l’acqua anche da bere. Non c’è sporcizia di cose marcescenti con odori sgradevoli perché tutto ciò che è commestibile lo mangiano gli animali: c’è solo plastica, manca la consapevolezza della sua pericolosità. Arrivati davanti alla scuola siamo stati accolti con gioia ed entusiasmo dal direttore e da un insegnante. Ci hanno fatto accomodare in una stanza che funge da ufficio e da ripostiglio di materiali vari, accatastati malamente e ricoperti di polvere – a causa delle caratteristiche del territorio la polvere è inevitabile, è ovunque e penetra ovunque. Dopo aver consegnato tutto il materiale che avevamo portato, ci hanno spiegato che apprezzano ogni tipo di aiuto perché avrebbero diritto a un finanziamento statale annuale per far fronte alle necessità, ma è dal 2012 che non è più stato erogato.
La scuola è frequentata da 600 alunni, divisi per età con 2 classi per età, 12 insegnanti, 4 bagni (turche), 1 rubinetto per l’acqua nel cortile. Ci hanno fatto visitare la scuola facendoci entrare in ogni aula, dove i bimbi stavano facendo lezione. I bimbi sia piccoli che grandi ci hanno salutato, sorridenti, con una compostezza e una disciplina sorprendente. Le materie che vengono insegnate sono le stesse che si insegnano in Italia: matematica, scienze, storia, geografia, lettere… Oltre al francese, che è stata imposta come lingua ufficiale all’epoca del colonialismo, insegnano da pochi anni anche la loro lingua ufficiale che è il wolof (non so se ho capito bene, ma voglio pensare che sia una riconquista della loro identità).
Quasi tutti i ragazzi continuano gli studi alle superiori e di questi circa il 50% frequentano poi l’università: un risultato stupefacente che apre uno spiraglio di speranza. In ogni aula ci hanno fatto notare il degrado degli ambienti e i problemi strutturali: sostegni pericolanti dei tetti in lamiera (non ci sono i sottotetti), mancanza di impianti elettrici (le aule sono buie), pavimenti in cemento privi di mattonelle, bagni insufficienti per il numero di alunni e molto degradati. Poi abbiamo visitato gli alloggi degli insegnanti che sono sempre all’interno dell’area scolastica: 2 stanze per 12 persone, unico arredo i materassi a terra. Gli insegnanti, 11 maestri e 1 maestra, vengono tutti da altri villaggi e sono pendolari settimanali.
Rientrati in ufficio avrei voluto fare tante domande, avrei voluto avere delle informazioni sulla vita del villaggio per capire com’è la vita dei bimbi al di fuori della scuola e come si rapportano gli adulti con la scuola stessa e avrei voluto affrontare il tema ecologico-ambientale, ma come primo incontro era già ricco di tante cose su cui riflettere. Ho solo chiesto se era possibile avere un elenco scritto dei lavori da fare, con quelle che loro consideravano le priorità, perché ritengo che solo con un progetto strutturato si possono concretizzare gli aiuti. Infatti la prima domanda che mi sono posta è stata cosa succeda quando le matite, i quaderni e le medicine sono finite. Però per evitare che gli aiuti diventino elemosine è fondamentale che loro stessi si attivino creando opportunità che col tempo li facciano diventare autosufficienti: è solo in questa prospettiva che gli aiuti sono importanti e acquistano un senso.
È stata un’esperienza molto interessante che mi ha fatto riflettere e mi ha fatto sorgere anche tanti dubbi. Mi sono chiesta se valga la pena continuare a mandare aiuti perché quelle che io vedevo come priorità sembravano non esserlo per quelle persone. Mi sono resa conto che stavo valutando tutto ciò che vedevo e ascoltavo con la mia logica da “italiana”. È facile cadere nell’errore di giudicare e criticare senza conoscere: se si vuole un dialogo e un confronto costruttivo, si deve conoscere per capire, comprendere le necessità sulla base di quella data cultura, educazione, modo di vivere la quotidianità, per essere vissuti in un ambiente e in condizioni profondamente diverse da quelle in cui sono vissuta io. Non ha senso dettare regole e decidere priorità a tavolino. Ognuno deve decidere in autonomia il proprio percorso.