Sepolti nell’acqua

3 Dicembre 2022

La letteratura greca è costellata di storie di naufraghi e naufragi. Sono numerose le avventure che gli eroi affrontano in balia del mar Mediterraneo, a partire ovviamente dalle peripezie del famoso Odisseo. Il tema del naufragio però non appartiene solo alle pagine più alte della letteratura, destinate a conservare per i posteri le narrazioni più avventurose e incredibili. Infatti, l’esperienza del naufragio nella Grecia Antica faceva parte del vissuto e della realtà di un popolo dedito al commercio e che aveva fatto della colonizzazione attraverso il mare un formidabile strumento di espansione economica e militare: si trattava di sfidare il fato per potersi garantire la prosperità e a volte la sopravvivenza. Di conseguenza, quello di morire in un naufragio, di rimanere insepolti, o sepolti in terra straniera era un destino di morte che un navigante era consapevole di rischiare di correre nel momento in cui lasciava la costa e si avventurava in acque che da un momento all’altro avrebbero potuto trasformarsi in abissi fatali.

Per capire fino in fondo che cosa significasse per i Greci morire in un naufragio è interessante leggere alcuni degli epigrammi del libro VII dell’Antologia Palatina, dedicato agli epitaffi. L’Antologia Palatina è la più ampia raccolta di epigrammi greci e copre un arco cronologico che va dal VI sec. a.C. all’età bizantina, e racchiude i temi più disparati, tra questi anche quello di argomento funebre.

Guardare da vicino questi epigrammi dedicati a naufraghi significa percorrere argomenti e descrizioni ricorrenti che si adattano al gusto ellenistico per il macabro o alla visione più moralistica dell’esistenza, tra questi bisogna sottolineare le parole e le espressioni greche per descrivere la tomba, il monumento funebre che rappresenta il “segno” testimone dell’esistenza di quell’uomo lì sepolto; l’esortazione del morto a non commettere il suo stesso errore, il tormento che continua anche dopo la morte a causa di una sepoltura vicino al mare; la descrizione del momento del naufragio, i pericoli che si celano nel mare; la relazione tra la navigazione in mare aperto e la navigazione nell’Ade, come passaggio dalla vita alla morte; la scomparsa del corpo, che continua a galleggiare tra le onde o giace sul fondo dell’abisso e le macabre descrizioni di corpi scempiati dagli animali; la temerarietà e vite di giovani spezzate; la partenza e il ritorno: la decisione di mettersi in mare, le circostanze del naufragio e le vite dei naufraghi.

Leggiamo queste parole nell’epitaffio di Lico di Nasso (AP VII 272,1-3, Callim.), che fa naufragio mentre torna da Egina, dove si era recato per un viaggio di commercio:

Νάξιος οὐκ ἐπὶ γῆς ἔθανεν Λύκος, ἀλλ’ ἐνὶ πόντῳ
ναῦν ἅμα καὶ ψυχὴν εἶδεν ἀπολλυμένην,
ἔμπορος Αἰγίνηθεν ὅτ’ ἔπλεε, κτλ.

«Lico di Nasso non morì sulla terra, ma in mare vide perire insieme nave e anima, quando tornava da Egina per commercio» Conca-Marzi-Zanetto 2005, 713.

Callimaco vuole mettere evidentemente in risalto il fatto che Lico di Nasso sia morto in mare, e non in terra; si può interpretare questa specificazione pleonastica, citando le parole di Otto Immisch, come un chiaro segno di come la morte in mare sia considerata come «una morte propria e completa, una morte per antonomasia» e «alla base di questa interpretazione c’è il pensiero che un termine come necare passando dal latino alle lingue romanze poté restringere il suo campo da “uccidere” ad “annegare”» (Campetella 1997/1998, 304).

Proiezione dei disegni del cratere nell’immagine in evidenza. Il cratere, dipinto con scena di naufragio, provenie dalla necropoli di San Montano, nell’antica Pithecusae (Ischia) ed è datatao alla fine dell’VIII secolo a.C. Si tratta di uno dei più antichi esempi di pittura vascolare figurativa ritrovati in Italia. La scena riproduce un mare pieno di pesci e degli uomini che cercano di salvarsi. Sotto una grande nave capovolta, sono rappresentati i marinai che cercano scampo nuotando, mentre uno di loro è già finito con la testa nella bocca di un enorme pesce.

Appartengono allo stesso genere alcuni epigrammi di Posidippo di Pella (della fine del III sec. a.C.), scoperti recentemente in un papiro conservato a Milano di provenienza egiziana; ne è un esempio Posidipp. 91 A.-B., dove si legge questo avvertimento rivolto dall’epitaffio al futuro navigante che si fermerà davanti alla tomba di Doro:

Τετράκι βουλεύσαιο καί, εἴ ποτε κῦμα πλοΐζου
μὴ ταχὺς Εὐξείνου γίνεο ποντοπόρος,
τοῦτον ἰδὼν κενεὸν Δώρου τάφον, ὃν Παριανῶν
τῆλέ που εἰκαῖαι θῖνες ἔχουσιν ἁλός.

«Pensaci quattro volte e, se mai hai solcato le onde, non essere precipitoso a navigare l’Eussino, vedendo questo vuoto sepolcro di Doro, il quale, lontano da Pario, da qualche parte, chissà dove, trattengono le dune del mare» (Austin – Bastianini 2002,117).

Come spesso accade, è questa una tomba che non conserva il corpo, disperso chissà dove: l’espressione greca θῖνες… ἁλός qui tradotta con “dune del mare” può infatti genericamente intendere il cumulo della massa d’acqua che sovrasta il cadavere annegato, che giace sul fondo, oppure la costa sabbiosa dove potrebbe essere stato sbattuto dalle onde. La presenza di questa tomba vuota diventa il pretesto per ammonire chiunque si avventuri in mare precipitosamente, senza ponderare gli alti rischi che si corrono, specialmente se non si ha esperienza di navigazione.

Non di rado i naufraghi protagonisti di questi epigrammi si trovano nella condizione di stranieri, lontani giorni e giorni di viaggio dal luogo di provenienza, su una qualche remota spiaggia. L’essere straniero in una terra straniera viene vissuto dal naufrago come l’ennesima sventura legata alla sua infelice sorte: il corpo privo di vita e martoriato dal mare, benché arrivato sulla terra ferma, non riceverà gli onori funebri da parte dei propri cari. Pertanto, l’unica speranza che rimane al naufrago è che almeno un passante, colto da un sussulto di umana compassione, si prenda cura della sua sepoltura e non lo lasci insepolto sulla battigia; il naufrago potrà così rimanere in attesa che un altro viandante, fermatosi a leggere ciò che la tomba riporta, riesca a riferire un giorno la notizia del naufragio e del luogo di sepoltura alla famiglia.

In AP VII 277 (Callim.) leggiamo:

Τίς, ξένος ὦ ναυηγέ; Λεόντιχος ἐνθάδε νεκρὸν
εὗρεν ἐπ’ αἰγιαλοῦ, χῶσε δὲ τῷδε τάφῳ
δακρύσας ἐπίκηρον ἑὸν βίον· οὐδὲ γὰρ αὐτὸς
ἥσυχος, αἰθυίῃ δ’ ἶσα θαλασσοπορεῖ.

«Chi sei, naufrago straniero? Leontico trovò il cadavere qui sul lido, e lo seppellì in questa tomba, piangendo la sua vita rischiosa; infatti neppure lui tranquillamente, ma come gabbiano, solca i mari» (Conca-Marzi-Zanetto 2005, 715)

Callimaco esordisce rivolgendosi al morto (νεκρόν) con la domanda più banale: Τίς, ξένος ὦ ναυηγέ, “chi sei straniero e naufrago?”, una domanda che in medias res si leva dalla tomba, ma che, invece di ricevere in risposta alcune informazioni sull’identità del defunto, rimane sospesa nel vuoto.

Compare allora la figura di un certo Leontico, il tale che aveva organizzato la sepoltura. Sembra dunque che la domanda sorga in un certo senso dalla mente perplessa di Leontico stesso, che, riuscito a seppellire il cadavere, ora non ha idea di cosa scrivere sull’epitaffio di questo anonimo naufrago. L’ha trovato sul lido, proprio nel posto in cui poi l’ha sepolto (ἐνθάδε) e ha fatto ciò ‘piangendo’, δακρύσας, ma non per il morto, bensì per la sua stessa vita. Il gesto di seppellire il morto sconosciuto diventa per Leontico un momento in cui soffermarsi a riflettere sulla propria vita, anch’essa rischiosa, come quella di tutti gli uomini di mare: in un certo senso un giorno in quella tomba ci sarebbe potuto finire lui. Ora non gli resta che ‘attraversare il mare’ (θαλασσοπορεῖ), non più come navigante, ma come gabbiano: infatti secondo quanto ci dice lo stoico Dionisio Eracleota i gabbiani sono le anime dei pescatori e, in generale, degli uomini di mare rimasti insepolti, da cui deriverebbero la loro gentile e specifica disposizione. Non risulta quindi il naufrago straniero protagonista del brano, ma chi ha compiuto la sepoltura con tanto zelo e che ha provato lo stesso senso di straniamento.

Niente sembra essere cambiato da quello che succede nel Mediterraneo oggi, se non per il fatto che un tempo si moriva a causa di una Sorte avversa, in un mondo in cui i mezzi a disposizione erano quelli che erano, dove era prassi comune dedicarsi al commercio o alla pesca mettendo in conto i rischi che ciò comportava, mentre ora si muore a causa di confini invalicabili creati dall’uomo, e muoiono anche donne e bambini.

Simbolo di questo dramma, ma anche simbolo di speranza per chi guarda verso l’Europa, è l’isola di Lampedusa, sotto i riflettori da quando sono iniziati i primi sbarchi dal Nord Africa. Ora il cimitero dell’isola non ospita solo i suoi abitanti: da diversi anni una parte di esso è dedicata a tutte le vittime dei naufragi, avvenuti anche a pochi metri dalla spiaggia. Qui troviamo gli epitaffi dei naufraghi e delle naufraghe di oggi: non sono poeti a scriverli, ma i volontari che gestiscono le sepolture. Per ora a commemorare i naufraghi di oggi non rimane che questo epigramma di Posidippo (107 A.-B.), anch’esso naufragato per sempre:

κεῖμαι ἐπ’ ἐθ[ν]
οὐδὲ προσα[]
ξεῖνε, πρὸς αὐ[]
ἀσπάζου φιλ[ ]

“Giaccio in una terra stranier[a]. né […]. o straniero, […] dammi il benvenuto con amic[izia]”.

Lapide anonima del cimitero di Lampedusa

Giorgia Ansaloni

Giorgia Ansaloni, di Nonantola, nata nel 1999, laureata in lettere classiche a Bologna. È iscritta alla magistrale in filologia classica, ma da molti anni ormai è anche maestra della Scuola Frisoun. Con un lungo percorso scout alle spalle, oltre a studiare manoscritti, le piace camminare in montagna, la compagnia, la musica e vedere posti nuovi.

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