“Quando cammino per strada e afferro parole, frasi, esclamazioni, penso sempre a quanti romanzi scompaiono senza lasciare traccia. Svaniti nel tempo. Dissolti nelle tenebre. C’è tutta una parte della vita umana, quella del parlato, che non riusciamo a portare nella letteratura”. Ecco sinteticamente spiegata la ragione per cui Touki Bouki guarda alla figura e al lavoro di Svetlana Aleksievič come modello per la composizione del suo “almanacco di paese”.
Si tratta di un breve estratto del discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura nel dicembre del 2015 che Claudia Zonghetti ha da poco ritradotto in italiano per i “Microgrammi” di Adelphi (una prima versione era stata pubblicata nel 2016 da Sergio Rapetti, curatore e traduttore storico dell’Aleksievič, in una breve raccolta di scritti dal titolo Il male ha volti nuovi, edito da Scholé).
Un libretto di poche pagine che condensa la poetica della scrittrice bielorussa e che per questo consigliamo come utile introduzione a chi non conosca i suoi libri e, sotto la spinta della guerra in Ucraina, abbia voglia di iniziare a leggerli.
Il discorso, che si apre con la celebre formula “Non sono sola su questo palco…”, è costituito da alcuni brevissimi frammenti dei suoi diari. I primi sono del periodo che va dal 1980 al 1985, in cui ha intervistato decine di testimoni diretti e indiretti della Seconda guerra mondiale. Pagine di diario e interviste che le serviranno per la scrittura di La guerra non ha un volto di donna, sulle donne che al fronte o in patria hanno combattuto per quella che la retorica di regime definiva la guerra patriotica contro il nazifascismo, e Gli ultimi testimoni, che raccoglie le memorie di quanti durante la guerra erano bambini.
I secondi sono tratti dai diari del 1989, che le serviranno nella stesura di I ragazzi di zinco, sulla decennale guerra russa in Afghanistan. Un milione di ragazzi e ragazze arruolati per “la grande causa internazionalista e patriottica” dei quali 14mila circa tornarono in patria chiusi appunto dentro a una bara di zinco.
Gli ultimi frammenti sono del 1990-1997 e coprono gli anni che dedicò alla raccolta delle testimonianze confluite nel suo libro più celebre, Preghiera per Černobyl’, pubblicato in russo nel 2001, a quindici anni dal disastro nucleare, tanti gliene servirono per ricomporre il coro straziante di coloro che per primi “toccarono con mano l’ignoto”.
A incastonare gli estratti del diario, alcune bellissime riflessioni sul protagonista di tutti i suoi lavori (e in particolare di Incantati dalla morte): il “piccolo uomo” (l’uomo e la donna qualunque) ingannato dalla “grande utopia” del socialismo sovietico.
“Io non invento, non estrapolo, ma organizzo il materiale che mi fornisce la realtà. I miei libri sono le persone che raccontano e io stessa, col mio modo di vedere il mondo e di considerare le cose. Scrivo, annoto la storia contemporanea nel quotidiano.” Così nel 1993 la Aleksievič difendeva nel tribunale di Minsk il suo libro I ragazzi di Zinco dall’accusa avanzata dal governo bielorusso di “disfattismo, scarso patriottismo, pacifismo tendenzioso, intelligenza occulta con le potenze straniere.” La Bielorussia era indipendente da un paio d’anni, ma il repertorio di accuse e il vocabolario utilizzato in sede di dibattimento erano ancora tutti intimamente sovietici.
“Ho tre case: la mia terra bielorussa, che è la patria di mio padre e dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, che è la patria di mia madre e dove sono nata; e la grande cultura russa, senza la quale non riesco a immaginarmi. Ho care tutte e tre. Ma è difficile parlare d’amore, di questi tempi.” La chiusura del discorso per il Nobel sembra scritta in queste settimane, anche se si riferiva alla crisi russo-ucraina del 2014. “Il tempo della speranza è stato scalzato dal tempo della paura. È tempo riavvolto all’indietro… È tempo di seconda mano…”
Le opere della Aleksievič sono state quasi tutte pubblicate in Italia dalle edizioni E/O. Da alcuni anni Bompiani ha avviato la pubblicazione delle opere complete.