Guardie e ladri

31 Dicembre 2022

L’espressione francese maraude esiste anche in piemontese: andé a la maròda, “andare alla maroda”, significa vagabondare per i campi o intrufolarsi nei giardini per rubare frutta o verdura: pomodori, pannocchie, ciliegie, fichi, fragole… A volte si tratta di prodotti avanzati dalla raccolta, qualcosa di simile alla spigolatura, altre volte di un vero e proprio furto.

Andare alla maròda sta a metà tra l’impresa furfantesca e l’azione coraggiosa e chi la compie a metà tra il malandrino e il Robin Hood. La stessa ambiguità si mantiene anche nello slittamento semantico che la parola ha avuto negli ultimi anni. A Parigi il termine maraude si usa per i gruppi di persone che escono la sera a cercare barboni e senzatetto e offrono loro cibo, coperte e conforto. A Ventimiglia la maraude consiste nel portare da mangiare a chi sosta lungo il confine prima di tentare il passaggio della frontiera, in un’area in cui, da qualche anno, portare un panino e offrire un tè caldo a qualcuno che ha fame ma è sprovvisto di documenti in alcune circostanze è considerato reato.

Dove abito io, lungo il confine occidentale del Piemonte, visto che il problema è quello del freddo, dell’altitudine, di un territorio che d’inverno si fa insidioso, le maraude sono le “incursioni” che sul versante francese alcune persone compiono in alta quota per verificare che non ci siano migranti in difficoltà. Al calar del sole i maraudeurs partono da casa riforniti di generi di conforto, vestiario e bevande calde, risalgono verso il crinale e cercano di intercettare e prestare soccorso alle persone che lasciano i sentieri e si nascondono nel bosco per paura degli agenti di polizia o dei militari che perlustrano quelle zone. Una situazione potenzialmente molto rischiosa per chi non è abituato alla montagna e che espone uomini, donne, anziani e bambini al pericolo di congelamento, al rischio di perdersi, di cadere in un dirupo, di rimanere al gelo un’intera notte. In questi anni diverse persone sono morte tra quelle montagne, hanno subito amputazioni o altri danni permanenti nel tentativo di superare la frontiera.

Con questo significato, maraude è un termine che dalle nostre parti si è iniziato a sentire nel 2016, in particolare lungo i sentieri che risalendo la vallata sopra Briançon portano verso l’Italia, all’altezza di Bardonecchia. Quando i cittadini del paese di Névache si sono resi conto che di notte, dal Colle della Scala scendevano giovani centrafricani sprovvisti di vestiti adeguati, totalmente impreparati ai sentieri di montagna, stanchi e spaventati, si sono attrezzati e, riforniti di torce, racchette da neve, sci con la pelle di foca, hanno iniziato a percorrere quei sentieri in direzione contraria per prestare loro soccorso.

Dopo alcuni mesi il flusso dei migranti si è spostato un po’ più a sud, all’altezza del Monginevro. Lì il passaggio è più accessibile, ma anche più presidiato dalle forze di polizia. Contemporaneamente sul fronte francese la rete dei maraudeurs ha iniziato a muoversi da Briançon e a risalire verso il Colle del Monginevro. In quel periodo è andato consolidandosi un vero e proprio movimento di maraudeurs.

Il primo nucleo era abbastanza legato alle professioni della montagna: guide alpine, maestri di sci, escursionisti, persone che avevano esperienza del terreno di montagna. Adesso c’è un po’ di tutto. Donne, uomini, giovani universitari, pensionati, alcuni che provengono dalla zona di Briançon altri che vengono da via. Perfino parecchi stranieri. E l’esperienza, in questi casi, se la fanno sul campo.

Questo per quanto riguarda i “ladri”. Per quanto riguarda le “guardie”, la stazione di polizia si trova a 1800 metri, a metà tra Claviere e il Monginevro. Lì opera un piccolo nucleo di poliziotti di frontiera. Ma da quando quel confine è diventato uno dei tragitti più battuti dai migranti che, per lo più provenienti dalla rotta balcanica, tentano di proseguire verso il nord Europa, la mobilitazione nella regione di Briançon è stata enorme. Non so dire un numero preciso, ma parliamo di centinaia di persone. Non solo forze della polizia ma anche della Gendarmerie nationale e dell’esercito. Per tutte loro il punto di partenza è la stazione di polizia del colle. Quando di notte pattugliano sentieri, boschi e piste da sci sono vestiti in tuta mimetica e anfibi, a volte si spostano con i quad, altre con i cani, hanno in dotazione telecamere a raggi infrarossi o strumenti che registrano il calore dei corpi vivi acquattati nel buio. Si nascondono, fanno appostamenti e quando trovano qualcuno escono allo scoperto e cercano di prendere le persone e di portarle al posto di polizia o di respingerle direttamente oltre il confine.

I maraudeurs sono osteggiati moltissimo. I pretesti con cui la polizia francese tenta di rendergli la vita impossibile sono dei più diversi: nel periodo del covid l’accusa era di uscire nelle ore del coprifuoco, ma più banalmente vengono fermati e multati per una ruota sgonfia o per un fanale rotto. L’accusa più grave è quella di interruzione di pubblico servizio, quando gli agenti dichiarano che il maraudeur ha ostacolato l’azione della polizia. Con quest’accusa ci sono parecchie persone sotto processo, alcune scagionate completamente, altre che portano avanti le cause per anni.

Se nella prima fase quella della rete dei maraudeurs è stata un’attività nascosta e semiclandestina, recentemente c’è stato un cambio di strategia importante. Tre anni fa quando i medici e gli attivisti dell’associazione francese “Médecins du Monde” hanno colto il fatto che nella regione di Briançon si stava amplificando il flusso di migranti che tentavano, in condizioni molto rischiose, il passaggio della frontiera, per un paio di mesi hanno avviato un’attività per così dire sperimentale: i medici e gli infermieri dell’associazione hanno iniziato a dichiararsi alla polizia di frontiera e ad affiancare i maraudeurs che salgono per soccorrere le persone in difficoltà. Il principio basilare è che chiunque incontri una persona in pericolo, che sia in una posizione di legalità o di illegalità, ha il dovere di soccorrerla e accompagnarla in un luogo sicuro. Se poi chi presta soccorso è un medico il suo dovere raddoppia. E così le auto di “Médecins du Monde” hanno iniziato a salire verso il colle facendo squadra con i maraudeurs, dichiarandosi in partenza alla polizia.

Come prevedibile, questi mesi di sperimentazione hanno mostrato risultati incoraggianti: tantissime persone messe in salvo e una riduzione enorme nel pericolo di congelamento di chi passava. “Médecins du Monde” ha quindi spostato una sua sede a Briançon e le maraude, d’inverno, sono diventate un appuntamento quotidiano. Anche quest’anno, con la prima neve, medici e soccorritori hanno già iniziato a battere i sentieri di notte.

Visto che il flusso è quasi totalmente verso la Francia, dall’Italia non partono maròde, perché se le persone salissero dal versante italiano non sarebbero viste come maraudeurs, ma come passeurs, non come soccorritori, ma come persone che accompagnano, magari sotto compenso economico, oltre la frontiera e in questo caso imputabili di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un’accusa gravissima per la legge. Lo stesso comportamento, da un lato all’altro della frontiera, in termini giuridici può essere letto in due modi diametralmente opposti. Da un lato come operazione di soccorso, dall’altro come reato.

Sul piano politico e culturale, l’accusa che si sta rinforzando in questi anni, la stessa rivolta alle navi delle ong che battono il Mediterraneo, è quella in base alla quale le maraude rappresenterebbero un fattore di attrazione per chi è intenzionato a oltrepassare i confini. Appel d’air, dicono in Francia, “effetto risucchio”; pull factor, “effetto d’attrazione”, nell’inglese della sociologia. Il sottinteso è che se nessuno li aiutasse non verrebbero più. Accusa che sappiamo benissimo essere falsa, oltre che assurda.

L’altra faccia dell’accusa, non meno assurda, è che chi aiuta diventa la causa del pericolo. Quando è evidente che l’aumento del pericolo è dato dal fatto che la frontiera è chiusa anche laddove, in area Schengen, non dovrebbe esserlo. Se la frontiera permettesse alle persone di presentarsi, passare con mezzi leciti ed eventualmente chiedere asilo non ci sarebbero persone in pericolo di vita e non ci sarebbe bisogno di maraude e malandrini che corrono in loro soccorso.

Una sessantina d’anni, minuta, capelli corti e brizzolati, insegnante di francese al liceo “Des Ambrois” di Oulx, in provincia di Torino. Silvia Massara parla lentamente e in maniera pacata. Misura le parole, cerca di essere precisa nei dati e nelle informazioni, tiene la retorica sotto controllo nonostante l’incandescenza delle storie che racconta. Ha una formazione scout, non da attivista politica. Sono le circostanze ad averla resa un’attivista politica (senza smettere di essere scout, le due cose non sono incompatibili!): dal 2016 il territorio in cui vive – le valli e i passi alpini lungo la frontiera che va da Claviere a Bardonecchia – è diventato uno dei passaggi più battuti dagli immigrati, africani prima e mediorientali poi, che tentano di raggiungere i paesi del nord Europa.

Di quel confine, delle persone che cercano di oltrepassarlo, delle iniziative di solidarietà che sono nate sia dal lato francese che da quello italiano della frontiera, Silvia Massara, volontaria storica del “Rifugio Fraternità Massi” (vedi scheda che segue), ne ha parlato nel novembre di quest’anno a Nonantola in un incontro pubblico molto intenso che abbiamo trasformato in due podcast (parte 1 e parte 2).

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