Affresco, distribuzione del pane, "Casa del fornaio", scavi di Pompei, Museo Archeologico Napoli

Pane sacro

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Il pane compare sulla terra quando l’uomo smette di spostarsi: nasce insieme all’agricoltura, all’allevamento, ai primi villaggi, alle prime credenze religiose e dopo poco nasce anche la scrittura, tutti elementi che i Greci consideravano propri di un popolo civile. E del resto i latini avrebbero usato lo stesso verbo colere sia per dire “coltivo il grano” sia “venero questa divinità”.

La coltivazione dei cereali va di pari passo con il “venerare”: d’altronde, per la religione classica, tutte le attività quotidiane non si sarebbero potute svolgere se non con l’intercessione di una specifica divinità. Per questo il pane, in quanto prodotto della terra e del lavoro dell’uomo, come ogni elemento strutturale della civiltà, ha assunto nel tempo connotazioni sacrali. Se a questo si aggiunge il fatto che il pane era la fonte essenziale di nutrimento, alimento presente sulle tavole di tutti, fatto con pochi semplici ingredienti presenti in tutto l’ecumene (il mondo conosciuto), si capisce bene perché nelle diverse civiltà mediterranee, da quella egizia a quella cristiana, fosse considerato anche come un simbolo religioso.

Prima di procedere, è necessaria una precisazione: quando nell’antichità si parla di “pane” in stretto senso, si denota un elemento connesso al focolare domestico, un prodotto fatto in casa per l’oikia, la familia. Nell’ambito religioso, e quindi pubblico, è più facile imbattersi in culti, tradizioni, rituali legati al frumento e ai cereali che sono gli ingredienti alla base del pane. Ciò non toglie che venerare una certa divinità per il dono del grano, significava implicitamente chiedere pane anche per i mesi successivi al raccolto: per questo ho tenuto un campo largo comprendendo anche ciò che pane non è ancora. 

Il pane e la sua lavorazione: tra religione, miti e cultura

Nato dalle macine come semplice impasto di farina, acqua e sale, questo alimento così essenziale ha assunto nel corso dei millenni gusti, forme, ingredienti e preparazioni diverse. 

Un passo fondamentale nella lavorazione del pane fu quello introdotto dagli antichi Egizi, quando circa cinquemila anni fa, alle farine e all’acqua aggiunsero il lievito. A questo ingrediente si fa riferimento nell’Antico Testamento nel libro dell’Esodo, quando a Mosè e al popolo di Dio viene ordinato di abbandonare l’Egitto dopo un pasto frugale fatto di erbe amare, agnello e pane azzimo, “non lievitato”, e saranno queste le pietanze che anche Gesù mangerà coi suoi dodici apostoli nell’Ultima Cena celebrando la Pasqua ebraica. 

Sempre nel Vangelo, il lievito lo ritroviamo in Mt 13,33: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”. 

Il lievito però è anche protagonista del mito greco di Perdicca, raccontato da Erodoto (V sec. a.C.). Perdicca, nientemeno che il futuro capostipite della dinastia macedone che porterà al trono Alessandro Magno, era emigrato in Macedonia coi suoi due fratelli al servizio del re di Lebaia. Ogni volta che la regina cuoceva il pane per lui, il pane lievitava più del doppio rispetto a quello degli altri. Così il re, inquieto a causa di questo prodigio, cacciò i tre fratelli e invece di pagar loro il salario pattuito, disse loro di prendersi “il pezzo di sole che passava dal camino”. Senza sconcertarsi, Perdicca tirò fuori il coltello e tagliò il cerchio di sole che si disegnava sul terreno, lo mise in bisaccia e si allontanò insieme ai suoi fratelli. 

Passando invece ad un piano linguistico, anche per la civiltà greca nacquero nomi specifici per indicare le varie tipologie di pane (così come noi abbiamo le “crocette”, le “rosette”, le “ciabatte”, ecc…): i nomi più comuni erano artos e maza. Col primo si era soliti indicare un pane fatto di farina di grano, e nonostante già l’Odissea lo attesti, la sua etimologia è incerta: potrebbe derivare dal verbo ararísko, “tenere insieme”, mettendo in risalto il fatto di essere un impasto, oppure da un iranico *arta, “farina” da un avestico *aša “terra”, o ancora potrebbe avere collegamenti col basco arto, che indica un pane di mais. Con maza invece si era soliti indicare la focaccia d’orzo: in questo caso l’etimo è certamente legato alla radice mag– di masso; famoso è il componimento di Archiloco 2 W2 dove nel v.1 si legge «sul legno sta la mia focaccia ben impastata (maza memagméne), sul legno il vino ismarico». Poi viene utilizzato per metonimia anche il sostantivo sitos, che indica più in generale il grano o il cibo, oppure psomós, che indica il semplice “boccone”, molto spesso di pane. 

Demetra e i mysteria eleusini

Il grano e la farina (e quindi il pane!) sono alcuni dei simboli del culto di Demetra, che presto entrò a far parte del pantheon greco-romano. Ma chi era Demetra? Figlia di Crono e di Rea, era la dea della fertilità della terra e le sue leggende si svilupparono in tutte le regioni del mondo ellenico in cui cresce il frumento, vale a dire lungo tutte le coste del Mediterraneo. 

La mitologia greca racconta che Demetra generò Persefone e quando Ade rapì quest’ultima e la portò nel Regno dei morti, cercò la figlia per tutta la terra e, nella sua disperazione, fece perire la vegetazione: in particolare i cereali, che essa aveva donato in precedenza agli uomini. Vagò per nove giorni e nove notti senza mangiare, senza bere, senza lavarsi o agghindarsi, tenendo una fiaccola accesa in entrambe le mani. Soltanto il Sole, Helios poté dirle alla fine ciò che era successo alla figlia e la dea, sotto le spoglie di una vecchia, si recò alla volta di Eleusi. 

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina, Roma, Galleria Borghese. Proserpina è il nome latino della dea greca Persefone, figlia di Demetra

Il mito vuole che proprio in questa occasione nacque l’iniziazione ai Misteri Eleusini. Il re Celeseo e la moglie Metanira la ospitarono benevolmente; tra l’altro era alla loro corte che viveva la vecchia Iambe che la fece sorridere con i suoi scherzi — Aristotele ci dice che discenderebbe da questo episodio il nome “giambo”, un tipo di poesia che deve suscitare il riso e legata alla commedia di età classica. Per ringraziarli Demetra cercò di rendere immortale il loro figlio Demofoonte o Trittolemo e a lui, facendosi riconoscere come Demetra, diede il compito di diffondere nel mondo la coltivazione del grano. Demetra placò la sua ira solo quando, per ordine di Zeus, Persefone poté risalire sulla terra e vivervi (come la vegetazione) sei mesi all’anno, raggiungendo un compromesso (infatti il mito prosegue raccontando di come Persefone, a causa di un chicco di melograno, non fosse riuscita ad uscire definitivamente dall’Ade e come si dovesse accontentare di fare visita al mondo dei vivi solo per sei mesi all’anno). 

In realtà di “demetre” nel mondo antico ce ne sono diverse: ogni civiltà che praticava l’agricoltura doveva avere una sua “Demetra” che le garantisse il raccolto; e allora troviamo l’italica Cerere (presto soppiantata dall’ellenica Demetra, dal suo nome deriva la parola “cereale”), nel “pantheon” degli antichi Egizi abbiamo Iside e dalla Persia proviene Cibele, due divinità che in età imperiale fecero capolino anche a Roma in un’ottica di sincretismo religioso, introducendo nuovi culti (ad esempio a Pompei il culto di Iside è attestato dalla presenza di un santuario). Probabilmente la nostra Demetra non era proprio greca: si stabilisce sull’Olimpo o sotto l’influenza della civiltà minoica che venerava una πότνια, una “signora”, madre di ogni cosa oppure direttamente dalle civiltà orientali più antiche. I Greci infatti credevano che prima dell’arrivo di Demetra gli uomini fossero stati cacciatori e allevatori nomadi di bestiame e che soltanto il suo arrivo aveva dato forma alla concezione della famiglia e della proprietà.

A Siracusa Demetra ero oggetto di culto come῾Ιμαλίς, “del pane” (anche se questo epiteto indica più in generale “dell’abbondanza”). Cicerone, secoli più avanti, diceva: Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam (“È antico questo detto, giudici, che esiste dalla antichissima letteratura e dagli antichissimi monumenti dei greci, che l’isola della Sicilia fosse stata consacrata totalmente a Cerere e Libero” In Verrem, XLVIII). Demetra proteggeva il suo popolo contadino nella guerra difensiva e ovunque la dea del pane fosse adorata.

Tornando invece in Grecia, a Eleusi, a ovest di Atene, nell’antichità si celebravano i più rinomati mysteria della Grecia, vale a dire riti di origine straniera – Egitto e Asia – il cui inviolabile segreto non è mai stato tradito. In questo luogo, l’abbiamo visto prima, Demetra si era fermata per prendere un po’ di fiato nella sua corsa febbrile alla ricerca senza tregua della figlia Persefone. 

Sappiamo che i misteri si celebravano nel mese di Boedromione (settembre-ottobre) e a partire dal VI sec. a.C. assunsero un posto rilevante nella vita religiosa della Grecia antica, nonostante il culto locale eleusino, come dimostrano diversi scavi, risalga all’epoca micenea (ma nulla si sa del suo carattere originario). Il più antico documento sul culto è l’omerico Inno a Demetra che narra la mitica origine dei misteri, ma dello svolgimento dei misteri stessi si sa poco, dato il segreto imposto agli iniziati. Le feste che, tutti gli anni, celebravano la scomparsa e poi la riapparizione della giovane rapita evocavano, senza dubbio, la morte e la rinascita annuali della natura. Anche Socrate fu un iniziato ai culti eleusini, dice Platone nell’Apologia: la conoscenza in Grecia (e assai prima in Egitto, in Babilonia, in India, in tutte le terre di intensa e profonda civiltà) era un frutto riserbato ai pochi, agli eletti, i quali per ottenerla dovevano purificare la propria anima. I pochi e oscuri dettagli che ci sono rimasti sul contenuto dei misteri non spiegano sufficientemente l’immenso prestigio che essi ebbero prima nella Grecia tutta, poi nell’intera ecumene ellenistico-romana: non appare strano però, dati i riferimenti all’immortalità, che su di essi si concentrassero le ansie soteriologiche della tarda antichità.

Culti legati al pane a Roma

Parlando di pane a Roma non si può non ricordare la formula “panem et circenses”, utilizzata dal poeta Giovenale nella satira X dedicata ai vizi del popolo dell’Urbe. Ma anche in questa formula, che vorrebbe ricordare la corruzione di un popolo drogato da una cattiva politica fondata sulle elargizioni pubbliche di grano – frumentationes – e sui giochi del circo, si impianta una concezione antropologico-religiosa sul simbolo del pane: soltanto chi infatti era in grado di poter sfamare il popolo poteva ergersi a suo protettore e guida, e chi lo aveva reso così frequente in età imperiale lo sapeva bene L’uso delle frumentationes voleva legare sempre di più il popolo al suo imperatore in un rapporto di dipendenza; il fatto che questa pratica venisse applicata sempre più frequentemente nei momenti di crisi del potere politico dimostra come gli imperatori avessero capito la forza populistica di questo gesto.

I procedimenti adottati a partire dall’età augustea per effettuare donazioni di frumento conferiscono carisma e potere; così come il rispetto di limiti formali e strutturali precisi che erano regolarmente adottati sin dall’età più antica consente di legittimare sul solco della res publica un impero che faticava ad essere accettato in pieno dal popolo e soprattutto dalla classe senatoria. Questa concezione del grano legata alla figura del capo di governo si può indagare sin dalle origini della Roma monarchica e prima ancora nel politeismo tradizionale Nell’Historia naturalis di Plinio il Vecchio (I d.C.) si afferma che Romolo fu il primo a istituire la carica dei sacerdotes arvorum, un collegio sacerdotale che aveva come insegna sacra una corona di spighe legate da una benda bianca. Sarebbe stato poi Numa Pompilio, il secondo re di Roma, a introdurre l’offerta votiva di cereali agli dei e alcune feste legate al culto di particolari divinità connesse con la coltivazione del grano.

A Roma si passa dunque dall’idea di grano come prodotto che ogni romano poteva autoprodursi con il proprio appezzamento di terra, al grano come distribuzione pubblica dopo un’epoca di continui conflitti civili (I a.C.) in cui i cittadini sono costretti a imbracciare le armi e abbandonare i campi: anche per questo l’approvvigionamento di grano diventa sempre più importante e le distribuzioni pubbliche sempre più frequenti.

Visitando poi l’antico foro di Roma, nell’angolo sudoccidentale, di fronte al tempio di Castore e Polluce, troviamo il tempio di Vesta e la casa delle Vestali. Vesta rappresenta una delle divinità autoctone dei latini, anche se presto viene associata alla greca Estia; entrambe le dee sono legate al culto del focolare domestico, della casa, e mentre Cerere-Demetra garantiva i buoni raccolti, Vesta-Estia doveva assicurare l’armonia, l’inviolabilità della casa, la pace famigliare – dove la gens era in funzione della Res Publica: le dinamiche famigliari si riflettevano su larga scala in quelle del potere centrale, per questo Vesta era così importante. 

Già dall’età monarchica (con Numa Pompilio) fu istituito un collegio sacerdotale dedicato al culto di Vesta: l’unica carica pubblica che sarà affidata alle donne fino all’epoca imperiale. Le Vestali – così si chiamavano queste sacerdotesse – erano in numero di sei e venivano scelte dal pontifex maximus, la più alta carica religiosa, quando avevano un’età compresa fra i sei e i dieci anni, vale a dire prima della pubertà; non dovevano essere orfane né di padre, né di madre, e non dovevano avere nessun difetto fisico. Le Vestali andavano a vivere in una residenza particolare, l’atrium del tempio della dea Vesta e prestavano servizio per trent’anni, suddiviso in tre decadi: apprendistato, servizio effettivo e insegnamento.

Loro dovevano sorvegliare il fuoco sacro di Vesta, il focolare pubblico custodito nel santuario dedicato alla dea, simbolo primario dello stato romano, che per questo non doveva mai spegnersi. In più dovevano preparare la mola salsa, farina di farro e sale con cui si cospargevano gli animali, vittime del sacrificio cruento, che, così, potevano essere “immolate”. Ma nella festa delle Vestalia l’offerta della mola salsa assumeva uno speciale carattere, quello cioè di ringraziamento alla dea per la compiuta maturazione delle messi e per il nutrimento così fornito all’umanità. In quei giorni le macine dei mulini erano adornate di fiori e di ghirlande di piccoli pani, e si addobbavano anche gli asini che le muovevano, i quali venivano condotti, così parati a festa, in giro per la città. Con la mola salsa, di crusca e di farro abbrustolito con sale, le sacerdotesse di Vesta apprestavano le focacce da offrire nei sacrifici mattutini e serali alla dea.

Il pane nel Nuovo Testamento

Un simbolo, quello del pane, che avrà poi un grande successo con l’esplosione del cristianesimo. I quattro Vangeli sono pieni di riferimenti al pane (lehem in ebraico): la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la celebre frase pronunciata da Gesù “Io sono il pane della vita”, “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”, il pane quotidiano della preghiera di Gesù al Padre, e poi il pane dell’Ultima Cena. Certamente come abbiamo visto fin qui il pane era un simbolo che chiunque avrebbe potuto intendere: un alimento essenziale nella dieta, esistente in tutto l’ecumene, così come il vino; un oggetto già carico di sacralità visti i culti pagani, e legato al sacrificio. Il cristianesimo, nel raccogliere elementi culturali esistenti e caricarli di un nuovo significato, si muove nella direzione di un profondo senso di sincretismo religioso in una sovrapposizione di significati e racconti che vanno dall’Antico Testamento al paganesimo e che ritroviamo anche nell’elemento del pane. 

Il mosaico di Tabgha, sul mare di Galilea, del V-VI sec., che ricorda il luogo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Osserviamo i significati e le espressioni che ἄρτος (pane) assume. Nel Nuovo Testamento il pane si ritrova come nutrimento quotidiano che viene benedetto e distribuito dal padre di famiglia ai commensali (seguendo il rito ebraico) e con l’idea di partecipazione alla beatitudine. Nell’Antico Testamento è la manna a essere definita “pane del cielo” e gli ebrei aspettavano un secondo miracolo escatologico della manna. Invece le espressioni che troviamo in Giovanni, “pane della vita” e “pane vivo” non hanno riscontro nel mondo giudaico, anche se nel mito babilonese di Adapa si parla di un “cibo della vita e un cibo della morte” proveniente dal cielo.

A livello esegetico invece il pane, che veniva sacrificato alle divinità pagane, diviene Gesù stesso nel suo estremo sacrificio: la consumazione dell’ostia (dal latino hostia, “vittima” del sacrificio rituale) rinnova il patto fra Dio e l’umanità. Il pane si configura in questo senso a livello simbolico come funzione fisica e spirituale: è fisico perché individua il corpo di Cristo, è spirituale perché rinvia alla dimensione divina e non umana del figlio di Dio. Nell’Ultima Cena compare un prodotto già finito da consumare, così come è concluso l’iter terreno di Gesù e l’ultimo atto fisico consiste nella sua distribuzione.

Il pane che veniva distribuito dagli imperatori per accontentare anche le classi meno agiate che gli avrebbero dato consenso anche nei momenti di carestia, diviene il pane di vita, un pane che sazia per l’eternità tutti quanti, se viene condiviso. 

Queste brevi note non esauriscono ovviamente tutte le riflessioni su questo tema, che per la sua portata storica è particolarmente denso. L’ultima considerazione che rimane da fare è quale valore noi possiamo dare al pane. In questi mesi, in cui venti di guerra non smettono di tirare anche in Europa, dove si è incendiato il suo granaio più grande, l’Ucraina, penso che il pane possa essere assunto come simbolo di pace. Abbiamo visto come anche nell’antichità l’unica condizione minima perché tutti potessero avere da mangiare, fosse la pace e come la assenza stessa del pane potesse rappresentare un fattore di guerra. 

Mi auguro allora, con un po’ di sana utopia come faceva Callimaco nel suo Inno a Demetra, che prima o poi gli uomini imparino, così come hanno imparato a impastarlo, a condividere il pane seduti alla stessa tavola di pace:

“Salve, dea: proteggi questa città nella concordia
e nella prosperità e porta nei campi un provento abbondante:
nutri gli armenti, porta i frutti, porta la spiga dacci le messe,
nutri anche la pace”
Callimaco, Inno a Demetra (trad. G.B. D’Alessio).


Nell’immagine iniziale: affresco, distribuzione del pane, Casa del fornaio, scavi di Pompei, Museo Archeologico Napoli.


Bibliografia consultata

P. Grimal, Mitologia in Le Garzantine, Milano 2006, pp.158-160
H. E. Jacob, I seimila anni del pane, 1944
Voce “Eleusi” nell’enciclopedia online Treccani: https://www.treccani.it/enciclopedia/eleusi
A. Saggioro, Pane per il popolo: Aspetti sacrali di un alimento di base (da Roma arcaica a alle frumentationes di età imperiale in Revista de Ciencias de las Religiones  (2004), pp.109-122
Francesca Cenerini, La donna romana, 2002, pp.152-153
Voce “Mola salsa” nell’enciclopedia online Treccani: https://www.treccani.it/enciclopedia/mola-salsa_%28Enciclopedia-Italiana%29/
Kittel-Friedrich, Grande lessico del Nuovo Testamento, Vol.1, 1965

Giorgia Ansaloni

Giorgia Ansaloni, di Nonantola, nata nel 1999, laureata in lettere classiche a Bologna. È iscritta alla magistrale in filologia classica, ma da molti anni ormai è anche maestra della Scuola Frisoun. Con un lungo percorso scout alle spalle, oltre a studiare manoscritti, le piace camminare in montagna, la compagnia, la musica e vedere posti nuovi.

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