Hakeem iniziò a lavorare alla Special formaggi l’8 maggio del 2013 grazie a un tirocinio formativo firmato dal Centro per l’impiego di Modena, dall’Unione del Sorbara e dall’azienda stessa. Nei mesi precedenti ero andato a bussare fisicamente in diverse aziende e capannoni del territorio per proporre loro dei tirocini che coinvolgessero i ragazzi, tutti nigeriani, accolti in quel periodo nell’ambito della cosiddetta Emergenza Nord Africa. Unidici ragazzi e due ragazze arrivati in Italia nel 2012 in fuga dai rivolgimenti politici di Egitto, Libia e Tunisia. Con fondi della Prefettura, l’Unione avrebbe rimborsato 3,10 € all’ora il tirocinante interessato a imparare un mestiere e all’azienda avrebbe garantito il supporto nella gestione burocratica del percorso. La Special Formaggi fu una delle più reattive ad aprire le porte dell’azienda. In quel contesto nacque la storia intensissima, sia dal punto di vista professionale che umano, tra Hakeem e la Special formaggi. In Andrea Zambelli e Patrizia Salmi, due suoi colleghi e superiori, Hakeem trovò anche due amici fidati che gli sono stati vicini nella malattia in un modo davvero commovente. Andrea, che in quegli anni era socio oltre che lavoratore della Special, ha ricostruito per noi questa storia di lavoro e di amicizia. (Luigi Monti)
All’inizio
Io non ho fratelli, ma Hakeem per me è stato un po’ come un fratello minore. Da quando ha iniziato a lavorare alla Special è diventato quasi subito parte della mia famiglia.
Quando sei venuto in magazzino a propormi il tirocinio di Hakeem, ti dissi che per me non c’erano problemi, l’importante era che fosse in regola e che se rompeva le balle potessi mandarlo a casa. Quelle erano le uniche condizioni che ponevo. Per Hakeem come per tutti. Ma Hakeem mi ha fatto subito un’ottima impressione. In questi anni ho imparato a riconoscere abbastanza in fretta chi ha una marcia in più. E Hakeem di marce in più ne aveva almeno due.
Quando alla fine del tirocinio sei tornato ci siamo detti: e adesso, che facciamo? Perché per me era un bravissimo ragazzo, ma non aveva famiglia, non aveva casa e qualche preoccupazione che ci lasciasse in braghe di tela ce l’avevo. E invece abbiamo fatto un primo contratto a termine, poi un indeterminato e quando è morto, dopo dieci anni, non solo era ancora sotto contratto, ma era uno dei pezzi fondamentali dell’azienda.
Che ci fosse un rapporto speciale si è visto subito, perché il primo Natale che era alla Special, visto che era da solo, mi è venuto da chiamarlo a festeggiare con la mia famiglia. C’era anche mio nonno, che quest’anno a giugno ha fatto cent’anni.
Tra me e lui c’era un’affinità speciale. Hakeem era uno che amava scherzare, come me, stava al gioco, non aveva mai il muso, non pretendeva niente, ma se avevi bisogno, lui c’era sempre. Questo non solo con me ma anche con tutti i suoi colleghi. Ha sempre voluto bene a tutti e tutti alla Special gli hanno voluto bene. Quando c’era lui, mangiavano sempre insieme. Aveva questa capacità di compattare il gruppo. Lo si è visto anche al funerale: a parte l’ultima impiegata che non l’aveva mai incontrato, erano tutti presenti.
La sua storia
Ha iniziato a raccontarmi qualcosa della sua vita, del suo viaggio, dei paesi che ha attraversato, delle sue tribolazioni, le prime volte che è venuto a mangiare da noi. Mi ricordo ancora la prima volta che c’ha raccontato qualcosa del suo passato perché l’associo a un particolare buffo che mi colpì: mia moglie aveva fatto le cotolette e lui, nonostante fossero bollenti, mangiava le cotolette con le mani. Io e mia moglie ci siamo guardati e abbiamo sorriso. Be’ quella volta lì, dopo mangiato, abbiamo chiacchierato un po’ e lui ha iniziato a raccontarci la sua storia. E ogni volta aggiungeva un pezzo nuovo. Devo dire che non sempre riuscivo a stare dietro ai suoi racconti e qualche volta ho avuto l’impressione che cambiasse un po’ la versione dei fatti. Tra le altre cose credo che avesse qualche anno in più di quelli dichiarati. Ma non importa. Succede sempre così: se uno guarda la propria vita da lontano è chiaro che il racconto prende una vita propria. E anche se gli anni, i ricordi, gli snodi importanti della propria storia non combaciano sempre perfettamente, il racconto non è per questo meno vero. In certe vite non dev’essere semplice portarsi appresso il proprio passato e maneggiarlo come se fosse un libro di storia.
Gli ultimi pezzi della sua vita ce li ha raccontati l’estate scorsa, prima che stesse male. Di venerdì, quando proponevo a mio figlio di andare a mangiare fuori, ogni tanto gli dicevo, dai sentiamo da Hakeem se viene con noi. Stava già male, ma quando usciva si tirava sempre su e mi sembrava che quelle ore passate in compagnia lo aiutassero a non pensare ai suoi problemi.
Il carattere
Hakeem era molto indipendente, da un certo punto di vista era un testone, ti ascoltava poco. Ti diceva ho capito e poi faceva di testa sua. I primi tempi che lavorava in azienda, quando mi diceva ho capito e poi non capiva, mi veniva un nervoso bestiale. Gli dicevo: ziocanta Hakeem, mi devi dire che non hai capito, non fai una brutta figura!
Però non posso dire molto, perché anche io sono un po’ come lui. Da un lato sono molto leggero, anche nelle conversazioni, e mi piace ridere e scherzare, però ho il sangue caldo, come ce l’aveva Hakeem. Se con uno ho chiuso, difficilmente riesco a riaprire. Come mi apro in fretta altrettanto in fretta chiudo. E lui era uguale. Però non l’ho mai visto alterato, non gli ho mai sentito alzare la voce. Quando c’era della tensione nell’aria, lui diceva: con calma, con calma, andiamo avanti…
Anche gli ultimi tempi, finché il fisico gliel’ha permesso, lui faceva di testa sua. Una volta, ad esempio, che c’era un caldo bestiale, dopo le cure in ospedale gli ho detto di aspettarmi che lo passavo a prendere io con il camion appena finiti i miei giri. Quando l’ho chiamato per dirgli che stavo per arrivare era già a casa. Ammalato, col fiato corto, in una giornata caldissima, per non disturbarmi o per non aspettare mezz’ora in più ha preso su ed è tornato da solo.
Anche con le medicine faceva di testa sua. In questo assomigliava a mio padre. Una volta mi ha mandato a prendere una medicina che aveva finito. Gliel’ho portata, ma ero un po’ di fretta e allora l’ho chiamato e gli ho detto: vieni giù Hakeem che c’ho la medicina. E lui mi ha risposto che non riusciva a fare le scale. Non tirava più aria dai polmoni. Chissà da quanti giorni era che non prendeva più quella medicina.
Il lavoro
Il lavoro era la sua ragione di vita. Anche con i suoi amici, se doveva trovare un argomento di conversazione, parlava fino allo sfinimento del suo lavoro, anche dei dettagli più insignificanti.
Quando al primo ricovero gli hanno fatto quella diagnosi terribile ed è stato tutto quel tempo lontano dal lavoro, nessuno di noi immaginava che avrebbe più ricominciato. E invece a un certo punto, nonostante le metastasi fossero già in giro dappertutto, grazie alle cure si è sentito più in forma ed è voluto tornare a lavorare a tutti i costi.
Per lui il lavoro era sacro. Anche quando ha scoperto di essere ammalato, la prima preoccupazione era di non poter più ricominciare a lavorare. Poi, certo, era uno parsimonioso e anche i soldi avevano la loro importanza. E si capisce, visto la vita che aveva fatto. Fra l’altro in tutti questi anni ha mandato un bel po’ di soldi in Nigeria. Al fratello, alla madre e a non so chi altro. Quando stava male i versamenti glieli facevo io. Andavo a Modena, vicino alla stazione delle corriere, dove c’era una Western Union e gli facevo questi bonifici.
Sul lavoro non era solo uno stacanovista. Era proprio capace. Faceva le notti da solo, era svelto a fare i carichi, era preciso a dividere la roba, usava la testa, faceva bene i conti, controllava con attenzione. Insomma, un gran lavoratore.
E poi era davvero un personaggio. Con lui si rideva e si scherzava sempre. Era sempre pari con tutti. Non ha mai detto di no a nessuno, se c’era da venire in un giorno di festa, se c’era da andare ad aiutare qualcuno, anche fuori dal lavoro, lui non si tirava mai indietro. Le serate che abbiamo fatto con i colleghi della Special sono stati tra i momenti più belli. Diverse volte sono finite in discoteca a ballare…
Quando abbiamo trasferito l’azienda e dalla zona industriale di Nonantola siamo andati in via Limpido, verso Recovato, gli ho detto: Bisogna che ti decidi a prendere la patente! Come fai ad arrivare fin là? Lui mi ha detto: te non ti preoccupare, io là ci arrivo. Saranno almeno sette chilometri. E lui li faceva estate, autunno, inverno, sole, neve, acqua, tempesta. Non è mai arrivato tardi una mattina.
La malattia
Ha scoperto il tumore per via del male alle gambe. Erano diverse settimane che si lamentava sempre del male alle gambe. Una mattina, era un venerdì, io vado al forno di Bagazzano, lui aveva fatto la notte, lo vedo uscire dalla Coop che zoppicava. Non diceva mai non ce la faccio o non sto bene. Allora sono tornato indietro e gli ho detto, ascolta Hakeem, mi hai rotto i coglioni, bisogna che andiamo da un dottore. Allora chiamo il mio amico Alberto Logli, che è un bravo fisioterapista. Lui lo visita e alla fine mi fa: Non capisco, c’è qualcosa che non va, io le mani addosso a sto ragazzo non gliele metto, secondo me bisogna che faccia un’ecografia.
E da lì pian piano s’è scoperto tutto. Aveva una trombosi in atto. L’hanno ricoverato subito e quando alla sera sono andato a trovarlo in ospedale i medici mi hanno detto che la situazione era brutta. La cosa più assurda è che in quell’occasione è saltato fuori un esame che Hakeem aveva fatto quasi due anni prima, dopo un piccolo incidente in bicicletta, in cui risultava già una macchia ai polmoni che “necessitava di ulteriori approfondimenti”. Un referto che evidentemente qualcuno ha sottovalutato… Chissà cosa sarebbe successo se Hakeem avesse trovato subito sulla sua strada dei medici scrupolosi, magari capaci di interloquire anche con chi ha la pelle nera, viene da un’altra cultura e magari non parla perfettamente italiano… Dei medici come alcuni di quelli che ha incontrato al centro oncologico del Policlinico. Come la dottoressa Orlando, che quando era ricoverato al Com non c’era giorno che non mi chiamasse per dirmi come procedevano le cose…
Inizialmente gli avevano dato 5 o 6 mesi di vita. Alla fine di mesi ne ha vissuti 30. Mesi molto intensi in cui addirittura, dopo un primo periodo di crisi, ha ricominciato a lavorare in azienda. La mancanza del suo lavoro era quello che lo buttava più giù. Per lui il lavoro era la normalità, non riusciva a immaginarsi una vita senza il suo lavoro.
È impossibile dire cosa sarebbe successo se due anni prima, quando gli hanno trovato quella macchia al polmone, avesse fatto subito degli accertamenti. Conosco delle persone che hanno vissuto fino a ottant’anni con un polmone solo. Ad Hakeem non lo buttavano a terra neanche le cannonate.
Anche gli ultimi giorni, quando era ricoverato all’hospice di Castelfranco, non l’ho mai trovato a letto, nemmeno una volta. Un sabato mattina vado là per portargli la brioche alla crema come io e la Patty facevamo spesso e ho visto che non stava bene. Gli ho detto: Hakeem, lascio qui la brioche, tu riposati che ci vediamo domani. Alle 17 gli mando un messaggino per chiedergli se andava tutto bene. Dopo dieci minuti mi risponde: Sì signori, grazie! Non ha smesso di scherzare nemmeno le ultime ore di vita. Alle 6 della mattina dopo, domenica 1 ottobre, mi chiamano dall’hospice per dire che Hakeem era morto durante la notte.
Il funerale
Non so di chi sia stata l’idea di chiudere l’azienda per permettere a tutti di partecipare. Io ho solo scritto un messaggio nel gruppo, la domenica mattina: Hakeem ci ha lasciato.
Fatto sta che al funerale c’erano tutti, anche l’ultimo ragazzino arrivato alla Special. Adorava Hakeem. Hakeem era così, se li prendeva sotto di sé e gli insegnava tutto.
Secondo me Hakeem ha voluto morire da solo. L’unica cosa che mi dispiace è che non c’abbia detto quali erano i suoi desideri e cosa volesse che facessimo con i due soldini che aveva messo da parte. Lui era fatto così: delle cose sentimentali non parlava volentieri. Diceva: cammina per la tua strada e vai sempre dritto. Anche quando era in Libia ed è scoppiata la guerra, il suo amico gli ha detto che tornava a casa e che se voleva, potevano andare insieme. Lui gli ha risposto che indietro non ci tornava. Cosa torno a fare? Se mi sparano e muoio, pazienza, c’avrò provato. E poi dopo 4 o 5 giorni ha telefonato al suo amico e gli ha detto che era arrivato in Italia!
Un’infermiera dell’hospice ha provato a chiedergli quali fossero i suoi desideri e dove volesse essere sepolto. Lui ha tirato via e ha detto solo che non gli interessava tornare in Nigeria. Al funerale, c’erano tutti. Molti dei suoi colleghi hanno sentito per la prima volta la storia di Hakeem. Non ne sono rimasti stupiti, ma sicuramente hanno capito meglio molti aspetti del suo carattere. Adesso Hakeem non c’è più. È sepolto al cimitero della Pieve, insieme ai nonantolani. La morte, come diceva Totò, è una livella, non chiede passaporti, non guarda al colore della pelle.
(Dichiarazioni raccolte da Luigi Monti)
Grazie per questa sincera, toccante e preziosa condivisione!
Bravo Andrea , hai scritto cose commoventi e chissà quante di queste persone ci sono in giro e nessuno le aiuta e le apprezza .
Comunque grazie per la testimonianza.