Quando ero piccola abitavo a Zikisso, in Costa d’Avorio, con Awa, che pensavo fosse mia mamma. In realtà Awa era la sorella di mia mamma. Non ho mai capito perché abitassi con lei. Ero piccola, avrò avuto 5 anni e all’epoca non mi facevo troppe domande. Un giorno però mia madre venne a prendermi, e così salutai Awa e tornai a vivere dalla mamma.
Mia madre aveva lasciato detto alla sua amica Amélie che il giorno in cui non fosse più stata al mondo si sarebbe dovuta occupare lei di me. Quando dopo pochi anni mia madre morì, mio padre non c’era già più e io lasciai Zikisso per andare a vivere con Amélie a Divo, una città più grande di Zikisso, dove sono rimasta fino al 2011. Dopo mi sono trasferita ad Abidjan, insieme alla nipote di mio padre, dove sono rimasta fino a quando ho deciso di partire per la Tunisia. Ad Abidjan non facevo niente, non studiavo e non lavoravo. Quando vedevo i miei amici passare del tempo con i genitori non riuscivo a trattenermi dal piangere: mi mancavano molto i miei.
Quando decisi di partire per la Tunisia, Amélie non si dimostrò preoccupata. Mi disse che se avessi intrapreso quell’avventura, Dio mi avrebbe dato tutto quello di cui avevo bisogno, che non avrei avuto problemi, che la vita in Tunisia avrebbe compensato la fatica del viaggio.
Ho fatto il viaggio in compagnia di un’amica di Amélie che chiamavo Tantie. Quando nei mesi scorsi la sentivo al telefono, Tantie mi diceva che non voleva più rimanere in Tunisia, voleva venire in Italia anche lei. Ma poi ho saputo che pochi mesi fa è annegata mentre tentava di attraversare il mare. Non hanno mai ritrovato il suo corpo.
Il viaggio dalla Costa d’Avorio alla Tunisia non è per niente facile, sei sempre tra la vita e la morte. Quando attraversavo il deserto mi ripetevo in continuazione: forse sopravvivi o forse no.
Sono arrivata in Tunisia nel 2019 e ci sono rimasta fino al 2022. Arrivata in Tunisia ho vissuto inizialmente con Tantie, poi, grazie a lei, ho iniziato a lavorare in una famiglia tunisina. Ho cambiato molti posti di lavoro, ma vivevo sempre nella casa in cui lavoravo. Mi è anche successo di lavorare e di non ricevere lo stipendio. Prima ho lavorato da una donna tunisina, mi occupavo delle pulizie e del suo bambino. Presto però sono arrivata alla conclusione che quel lavoro fosse troppo rischioso: se mentre mi occupavo delle faccende di casa il bambino si fosse fatto male avrei passato grossi guai. Allora ho lasciato quel posto e sono andata a fare la badante: cambiavo i pannoloni di una vecchia, le davo le medicine, le preparavo da mangiare, facevo un po’ di tutto. Dopo 4 o 5 mesi ho cambiato ancora e sono stata assunta da un’altra famiglia, ma per fortuna questa volta i figli erano grandi.
Ho vissuto prima a Tunisi e poi a Sfax, la città da cui sono partita per venire in Italia. Per un nero non è facile vivere lì. Quando hai un contratto e lavori in casa, cerchi di uscire il meno possibile. A Sfax ci sono molti africani: vengono dalla Costa d’Avorio, dalla Guinea, dal Mali, dal Camerun, dalla Nigeria: tutta l’Africa nera passa di là. Ma se sei nero, la vita diventa difficile, anche a causa dei minori tunisini. È facile che loro ti minaccino con un coltello per farsi dare i soldi o il telefono: dicono che sei nel loro paese e non hai diritto di avere un bel telefono. Gli scippi vengono perpetrati in gruppo: arrivano, ti circondano e ti strappano il telefono. Non ho mai pensato di chiamare la polizia perché i poliziotti parlano solo arabo e io non ho mai imparato a parlarlo. Poi nessun poliziotto avrebbe mai preso le mie difese contro un connazionale.
I tunisini che vivono in Tunisia sono molto razzisti. Quelli che vivono in Italia, forse perché conoscono il razzismo sulla propria pelle, lo sono meno. Forse hanno una mentalità più aperta. Diciamo così: chi ha il passaporto e ha viaggiato non è cattivo, ma chi non ha mai avuto il passaporto lo è molto.
Un giorno un tunisino mi ha detto: “Qui facciamo lavorare molto gli africani”. Loro chiamano i neri gli africani. Poi ha aggiunto: “Cerca di non rimanere qui, è molto faticoso”. Cercavo una vita migliore, ma vedevo che in Tunisia era tutto complicato. E alla fine sono stati proprio dei tunisini a consigliarmi di partire: “Un giorno ti faranno del male”, mi dicevano.
Per venire in Italia mi ha aiutata un tunisino, lo stesso che mi aveva consigliato di andarmene. Quando lavoravo da lui ho scoperto che organizzava anche viaggi verso l’Europa. “È un rischio”, mi ha detto una volta. Ma io ho pensato che fosse meglio rischiare di morire affogata piuttosto che non provarci nemmeno.
E così un giorno sono salita su una barca dove erano stipati tunisini e africani insieme. Dio mi ha concesso la grazia di arrivare, e anche di vivere serenamente il viaggio visto che ho dormito tutto il tempo. Solo quando sono arrivata a Lampedusa mi sono risvegliata. Gli italiani venuti in nostro soccorso sono stati molto gentili con noi. Ci hanno accolto dicendo: “Benvenuti in Italia”. Poi un signore ha parlato francese e ha detto: “Venite e sedetevi, piano piano”. Era un’imbarcazione molto piccola. Dicevano fosse la marina militare, ma c’era la bandiera tedesca insieme ad altre bandiere.
Ultimamente degli amici mi hanno detto che in Tunisia la situazione per i neri è peggiorata. Vengono a prenderli e li riportano nel deserto, da dove la maggioranza di loro è arrivata. Io non ho più contatti diretti in Tunisia però mi hanno detto che i neri non possono nemmeno più salire sui taxi e sui bus e vengono rifiutati ovunque.
Non ho più ricordi della Tunisia. La Tunisia traumatizza chi passa un po’ di tempo là e la gente cerca di dimenticarla in fretta.
Fotografie di Fakhri El Ghezal. Questo articolo fa parte di un numero speciale di Touki Bouki pubblicato nel dicembre del 2024. 32 pagine di storie di vita, analisi, fotografie, fumetti e cartine geografiche. Chi volesse riceverne una copia cartacea (fino a esaurimento copie) può farne richiesta, con un piccola donazione, scrivendo a redazione.toukibouki@gmail.com.