Crescere dentro

29 Aprile 2025

Da più di trent’anni Paola Cigarini, fondatrice e animatrice dell’associazione modenese Gruppo Carcere-Città, entra nel carcere di Sant’Anna di Modena allo scopo di incontrare i detenuti e di far dialogare il mondo di dentro con quello di fuori. Nel numero 1 di Touki Bouki, abbiamo pubblicato una lunga conversazione che lei e Pier Vincenzi hanno tenuto con alcuni studenti della Scuola Frisoun. Senza paura di esagerare, crediamo sia uno dei pezzi più interessanti usciti in questi anni sul tema del carcere. Per questo numero sulla Tunisia abbiamo fatto a Paola alcune domande sui giovani migranti che popolano il carcere di Modena.



Conflitto, non emarginazione

La percentuale di persone straniere detenute nelle carceri del nord Italia è molto alta. Molto alta e molto varia. Alla casa circondariale Sant’Anna di Modena – sono dati del Ministero dell’Interno aggiornati a ottobre scorso – su una capienza massima di 372 persone, i detenuti sono in realtà 571 e di questi 347 sono di origine straniera. Che significa il 60% del totale. Un’incidenza così alta significa che gli stranieri sono più propensi a delinquere? A meno di non credere alle teorie razziali, evidentemente no. Molto semplicemente gli stranieri vivono condizioni di esclusione e sfruttamento maggiori degli italiani; non hanno reti sociali e familiari alle spalle; non hanno case dove trascorrere domiciliari e obblighi di firma; non hanno avvocati che possano evitargli la galera. Ecco spiegata, in maniera un po’ rozza ma realistica, l’incidenza così alta di stranieri al Sant’Anna di Modena.

Il sovraffollamento poi è diventato strutturale. È ipocrita chiamarlo “straordinario”. È determinato non dalle persone che ci sono dentro, ma da quelle che vengono ammassate ai suoi cancelli. Cosa voglio dire con questo? Che il carcere, come il collo di un imbuto, è il luogo dove finiscono per concentrarsi tutti i problemi che non vengono risolti fuori: tossicodipendenza, immigrazione disintegrata, disagio e malattia mentale, impossibilità di accedere a un alloggio dignitoso, sfruttamento lavorativo, affanno delle agenzie educative… ecco alcuni dei problemi che trovano il loro sbocco naturale in carcere. Una promiscuità di lingue, di culture e di problemi che secondo me dovremmo smettere di chiamare emarginazione. Senza togliere importanza alle scelte e alle responsabilità individuali, eludendo le quali si rischia di non considerare persona una persona, in carcere finiscono piuttosto i conflitti a cui la società non sa o non vuole tentare di dare una risposta.



Giovani e giovanissimi

Nell’ultimo anno si è affacciato con prepotenza il tema dei giovani. Dopo il cosiddetto decreto Caivano è aumentato molto il numero dei giovani che finiscono in carcere. In questi anni i decreti riguardanti la giustizia penale, e Caivano non fa eccezione, non hanno risposto quasi mai a un bisogno della società, ma sono serviti a inventare nuovi tipi di reato o ad allargare le maglie di quelli esistenti. E con ciò ad aumentare la popolazione carceraria.

Pensiamo ai minori stranieri non accompagnati, ragazzi che alla maggiore età escono dalle comunità d’accoglienza, che potrebbero rientrare nel novero dei richiedenti asilo e che sempre più spesso si trovano in mezzo alla strada. Non hanno dove andare, non sanno a chi appoggiarsi se non ad altri giovani nelle loro condizioni. Le cosiddette bande spesso si formano così, gruppi di giovani che non hanno la minima idea di cosa significhi vivere secondo le regole e che finiscono in carcere sempre più precocemente.

I giovani che sono in carcere sono quasi tutti stranieri. Non saprei dire esattamente quanti tunisini ci siano in questo momento nel carcere di Modena, ma sicuramente è una percentuale consistente del totale degli stranieri. A livello nazionale so che rappresentano il 10% degli stranieri detenuti in carcere. In Emilia Romagna sono 354 sul totale, sempre su fonte del Ministero dell’Interno.

In carcere li riconosci perché ridono, piangono, minacciano, scherzano, prendono in giro i detenuti più anziani, danno fuoco al materasso per gioco, per vedere di che colore esce il fumo, ingoiano di tutto, si tagliano, manifestano arroganza verso tutti, come se continuassero a giocare a guardie e ladri.

Il numero dei giovani è cresciuto molto nell’ultimo anno anche perché dal carcere minorile si è creato un canale d’ingresso privilegiato verso gli istituti di pena: con il Decreto Caivano, se un ragazzo combina qualche casino al minorile, al compimento del diciottesimo anno facilmente viene sbattuto in mezzo agli adulti. Prima potevi stare al minorile fino a 25 anni.

Un altro fattore che ha determinato l’aumento dei giovani detenuti è anche la diminuzione dei posti nelle comunità per minori. L’altro giorno il capo area trattamentale del minorile di Bologna mi diceva che non riusciva a dare esecuzione a un mandato del giudice per inserire un ragazzo in comunità perché non trovava posti liberi. La crisi delle comunità minorili è un’altra pentola che andrebbe scoperchiata. Pare che diverse comunità della regione stiano chiudendo perché non trovano educatori disposti a lavorare per loro. E ci credo! Lavoro sui turni, domenica e festivi compresi, paga pessima, violenza quotidiana, rischio di stress altissimo. Lavorare in certe strutture è davvero sfiancante.



L’ossessione del consumo

Un ragazzo che lavora in cucina, giovane, carino con gli occhi spenti, molto tranquillo, l’altro giorno mi arriva con una sportina di plastica e mi fa: “Devo chiederti un favore. Ho bisogno che mi procuri un paio di scarpe come queste”. Nella sportina aveva delle scarpe da ginnastica griffate, ultimo modello. “Per i soldi”, mi fa, “non ti devi preoccupare”. Gli chiedo cosa se ne faccia in cucina di scarpe così fighette. “Non sono per me. Devo saldare un debito.” Non sono riuscita a trattenere il mio scandalo un po’ moralistico: “Ma secondo te?! Medicine, pile, cinturini dell’orologio, prodotti per l’igiene, ok. Per il resto, ti arrangi!” Da tempo ho deciso di sfilarmi da richieste come queste.

Un altro, che sembra timidissimo, mi ha chiesto la maglia dell’Inter. Quella originale costa ottanta euro. In sezione ammireranno tutti la sua maglia perché tutti hanno il calcio nella testa e lui per qualche giorno sarà un piccolo boss della sezione. Adesso sta lavorando in cucina e un po’ di soldi da parte è riuscito a metterli. Quando andrà fuori non avrà più un soldo, ma avrà la maglia dell’Inter.

È innegabile l’ossessione che hanno per il consumo e per tutti gli oggetti che pensano innalzino il loro status. Come i ragazzini “fuori”, d’altra parte. La differenza è che questi hanno un padre che sgobba per mantenere la famiglia, un padre che vedono sì e no una volta alla settimana perché torna tardi la sera. Madri isolate senza nessuna ascendenza sui maschi di casa. E così a questi ragazzi si spalanca la strada dello spaccio, che è una cosa che dà soddisfazioni immediate: riempie le giornate, ti permette di aiutare la famiglia, ti procura vestiti, orologi e telefoni che ti fanno sembrare un po’ meno diverso… Difficile trovare la forza per resistere. Finché rimani capace di gestire un piccolo giro di spaccio sei a posto, ma quando incominci a perderlo, perché non hai il carattere o perché la concorrenza è alta, sei davvero fuori.

Non sono in grado di dire se e quanti minori o neomaggiorenni stranieri arrivino in Italia attraverso reti organizzate per lo spaccio. Molti di quelli che ho conosciuto in carcere, il viaggio l’hanno fatto da soli, ma qui avevano fratelli, zii o cugini. Quello che vedo sempre più spesso però è che, a differenza dei parenti arrivati in Europa vent’anni fa, i giovani puntano spesso al soldo immediato e facile. Tradotto, lo spaccio. Insieme allo spaccio, spesso, il consumo. Il carcere non li aiuta di sicuro in questo senso. Se problemi con la droga e con lo spaccio i ragazzi tunisini non li hanno già quando entrano in carcere, molto probabilmente li hanno quando escono. Si sa che il carcere è un luogo privilegiato per reclutare manovalanza disposta a delinquere. È un fenomeno al confine tra sfruttamento e mutuo aiuto. Qualcuno ti offre una casa dove dormire, perché per uscire con l’obbligo di firma devi avere un domicilio, ma in cambio ti chiede una mano nello spaccio. A volte li vedi ammassati nei monolocali dei palazzoni, in cinque o sei per stanza, un coacervo di problemi difficilmente districabili.



Nessun profilo, solo storie

Non esiste un profilo del giovane tunisino che finisce in carcere, anche perché un profilo, uguale per tutti, non c’è mai. Quello che posso dire è che spesso è tossicodipendente o piccolo spacciatore o fumato dalla testa ai piedi o con un disagio mentale conclamato, per usare le categorie diagnostiche “fai da te” che circolano in carcere.

In questo momento i tunisini che entrano in carcere hanno tutti tra i venti e i trent’anni. Magri scheletrici, pallidi, occhi cerchiati. Un’angoscia solo a vederli. Qualcuno si fa di crack o di altra roba sintetica che ti consuma in poco tempo. Quando son giovani ti colpiscono tutti. Sembrano dei ragazzini. Alcuni li rivedo a distanza di mesi o di anni. E più passa il tempo, più si disfano. Una di queste volte sentiamo che è morto, mi viene da pensare con angoscia quando li vedo ridotti così.

Molti vengono dallo stesso quartiere, dalla stessa città, dallo stesso rione. Lo dico perché ci sono madri che nel confezionare un pacco per il figlio che si trova al Sant’Anna, aggiungono anche delle cose destinate ad altri ragazzi da parte di altre madri. Ogni tanto nei pacchi ci mettono del cibo tradizionale senza sapere che il cibo gli agenti non lo fanno passare. Per scuoterli un po’, ogni tanto faccio delle prediche di questo tenore: “Ma non ti vergogni a farti mandare i jeans da tua madre, che dici sempre che là non ha neanche da mangiare?” Con questi giovani mi rendo conto di non avere strumenti. Riesco solo a fare la vecchia mamma.

E poi ci sono i disturbi mentali. Un ragazzo che ho incontrato ieri è seguito dal Centro di salute mentale. Ha litigato a più riprese con i genitori anziani e ha picchiato il padre, anche lui in carico al Csm. Gli hanno dato due anni. Non ha i documenti. Aveva tentato fortuna in Romagna, qualche tempo fa, ma le turbe, l’aspetto fisico, il tono di voce altissimo evidentemente non si conciliavano la movida romagnola. E così è tornato da queste parti. Ha dormito per diverso tempo all’aperto, sopra dei cartoni. Andava a suonare a sua madre e si davano appuntamento al parco, perché lui aveva il divieto di avvicinarsi a casa dei suoi. Sua madre gli portava qualcosa da mangiare. Un giorno suo padre l’ha visto confabulare con la moglie e gli ha tirato dietro piatti e bicchieri. Allora lui ha preso un bastone e gli ha disfatto la macchina. Qualcuno ha chiamato la polizia ed è tornato dentro. Adesso dal carcere chiede che aiutiamo la mamma che ha una forma grave di diabete. Non so perché ma c’hanno tutte il diabete le mamme di questi ragazzi. Uno di questi giorni lo aiuto a scrivere ai servizi. Mentre il fratello pare sia come il padre, la sorella è una persona equilibrata, solida. Sarebbe un buon punto d’appoggio per lui, ma vive all’estero.

Ecco, se dovessi tentare una generalizzazione, direi che le donne, in generale “si salvano” di più rispetto agli uomini. Anche le donne tunisine, quando entrano, è per ragioni di droga. Solitamente sono un po’ più grandi dei ragazzi, sulla trentina. Ma riescono più facilmente a uscirne (e di conseguenza diminuisce anche la probabilità che ci ritornino: la recidiva è direttamente proporzionale al tempo che passi in carcere) o perché fuori hanno degli sfruttatori che le prendono in casa quando se ne presenta il bisogno o perché hanno dei bambini piccoli.

Molti sono “irregolari”, altri lo diventano a causa del carcere. Come tu entri, se hai due soldi da parte, chiedi di rinnovare il permesso di soggiorno scaduto o in scadenza. Compili il solito kit postale, ma se sei dentro, il kit rimane fermo in questura. E una volta uscito, se il questurino che ti deve rinnovare il permesso vede una pendenza a tuo carico sono casini. Non so se i rimpatri stiano aumentando, ma il tema, soprattutto verso paesi come la Tunisia, si è aperto moltissimo. A noi volontari mica lo dicono, ma ogni tanto vediamo arrivare una macchina dei carabinieri e il detenuto improvvisamente non c’è più…

L’unica speranza è il lavoro di prevenzione, fuori, prima che entrino qui dentro. Una volta entrati, sono pochissimi e per vie a me incomprensibili quelli che migliorano e trovano un loro equilibrio. Ma sono vie che non si misurano, non si organizzano, non dipendono né dal carcere, né da chi ci lavora. Tolte queste rare eccezioni, dentro possono solo peggiorare. Scendere sempre più in basso.

(Dichiarazioni raccolte da Giorgia Ansaloni)

Le fotografie che accompagnano questo articolo sono di Fakhri El Ghezal. L’articolo fa parte di un numero speciale di Touki Bouki pubblicato nel dicembre del 2024. 32 pagine di storie di vita, analisi, fotografie, illustrazioni e cartine geografiche interamente dedicate alla Tunisia. Chi volesse riceverne una copia cartacea (fino a esaurimento copie) può farne richiesta, con un piccola donazione, scrivendo a redazione.toukibouki@gmail.com.

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