La guerra, il pane, la comunità: breve storia del Forno Baracca

1 Maggio 2023

La guerra

Il Forno Baracca è nato in Africa, in Egitto per la precisione. Il nonno ha acquistato il forno, che allora si chiamava “della Prussia”, nel 1950. Ma l’idea originale è maturata prima, quando lui si trovava nel campo di concentramento di Suez.

Le cose sono andate più o meno così. Classe 1917, Marino Zoboli è stato chiamato per la leva obbligatoria due anni prima che scoppiasse la Seconda guerra mondiale. Al momento di tornare a casa è stato trattenuto e mandato a combattere in Francia. Dalla Francia è stato spedito in Libia e lì gli inglesi l’hanno catturato e rinchiuso, dopo un viaggio estenuante attraverso il Sahara, nel campo di concentramento di Suez, sul Mar Rosso, dov’è rimasto per sei anni.

Il nonno la guerra aveva provato a evitarla in tutti i modi: si era imposto di non usare mai il fucile e quando si è trattato di imparare a guidare i mezzi blindati ha finto di essere più imbranato di quanto non fosse e non ha mai preso la patente da carrista. Quando a un certo punto ha saputo che la sua divisione cercava dei cuochi da campo, si è fatto avanti. Per le stesse ragioni, dato che a partire dagli undici anni era stato a bottega nel forno di paese, durante la prigionia in Egitto ha iniziato a fare il panettiere per gli inglesi.

La nonna invece la guerra l’ha fatta a Nonantola. Diceva spesso che a Nonantola c’erano rimaste solo le donne e i bambini e che anche andare a prendere il sale in città era pericoloso. Non ha mai perso la paura degli aerei, neanche da anziana. Lo si capiva da come guardava in cielo quando sentiva il rombo di un aereo che passava. Una volta, quando ha visto Erica entrare al forno con le Doctor Martens ha quasi cacciato un urlo perché le ricordavano gli stivali dei tedeschi.

Il nonno diceva sempre che se avesse voluto con tutte le lingue che si parlavano al campo di Suez sarebbe potuto diventare professore. E invece l’unica cosa che ha preso su dagli inglesi è stato un certo stile nel vestire che agli occhi dei nonantolani lo rendeva particolarmente strano ed elegante.

Sebbene lui abbia fatto di tutto per sfuggire alla guerra, la guerra l’ha acciuffato e gli ha rubato gli anni migliori: due di militare e sei di prigionia, per un totale di otto anni. Ha visto morire molti giovani soldati durante gli attacchi degli inglesi, ha rischiato di morire di dissenteria, ha perso dei compagni durante la traversata del deserto, insomma devono essere stati anni molto duri. Ma gli aneddoti più drammatici ha iniziato a raccontarli solo quando era anziano. Fino ad allora, nel ricordare gli anni di guerra, prevaleva sempre un tono ironico e vitale, almeno con noi nipoti. Come quando raccontava che un giorno, mentre cucinava un piatto di pasta per gli ufficiali italiani, gli inglesi hanno iniziato a bombardare. Lui si è nascosto sotto un carro armato, non proprio il posto più sicuro a dire il vero, e quando l’attacco è finito, della cucina non era rimasto quasi più niente, ma la pasta, dopo una smitragliata degli aerei inglesi, era già scolata e cotta a puntino. O come quando diceva che i prigionieri italiani del campo di Suez erano particolarmente abili nel procurarsi i beni di prima (e seconda) necessità. Ad esempio erano capaci di entrare nudi nelle docce e di uscire con una sigaretta accesa in bocca.

A conti fatti, la guerra gli ha anche dato l’idea del mestiere. E chissà dove saremmo noi oggi e a fare cosa, se non si fosse messo a fare il pane quando era prigioniero degli inglesi. È da lì infatti che appena si è reso conto della fine imminente della guerra ha preso contatto con i suoi fratelli (in tutto erano in sette) e gli ha detto: compratemi un forno a Nonantola. E così lui, in società con uno dei fratelli, nel 1950 ha messo su il Forno Baracca. E c’è rimasto fino a 96 anni.

La famiglia

Noi nipoti siamo nati dentro il forno.

Quando il papà, ha iniziato a lavorare qua, nel 1981, la mamma, poco più che ventenne, aveva appena partorito Giacomo ed era incinta di Lorenza. Inizialmente il papà lavorava come casaro, ma la mamma ha scoperto presto di essere allergica alla penicillina perché da bambina ne aveva assunta tantissima. Sullo strato esterno del formaggio c’è molta penicillina e così, visto che in quel periodo al nonno mancava un operaio e poco dopo lo zio ha lasciato la società, anche il papà e la mamma hanno iniziato a lavorare al forno.

Adesso lavoriamo tutti qua, tranne Erica che ha 23 anni e non ha ancora deciso cosa fare del suo futuro. A lei rimane ancora la possibilità di scappare! Il nonno ci ha attirati qui dentro fin da piccoli con molta abilità “pedagogica”. Siccome eravamo spesso dai nonni, che abitavano sopra al forno, capitava che al pomeriggio dicessero: “Cosa mangiamo oggi a merenda? Perché non facciamo po’ di crema pasticcera?” E allora scendevamo in laboratorio e il nonno iniziava a raccontarti la ricetta: prendi un po’ di questo, un po’ di quello, la fiamma deve essere così, la pentola dev’essere cosà… e quasi per gioco ci insegnava i rudimenti del lavoro. Con Giacomo, l’unico maschio di famiglia, questo tentativo di cattura era ancora più evidente. A lui ha proprio trasmesso i segreti del mestiere e adesso è un fornaio finito, come avrebbe detto il nonno.

Nostro padre, che era “solo” il genero e non uno di famiglia, il nonno lo teneva un po’ a distanza. Lo chiamava “il colono”, perché veniva da Recovato. Si può dire che direttamente non gli abbia gli mai insegnato nulla, anche se hanno lavorato gomito a gomito per tanti anni. Il nonno era molto geloso delle sue ricette. Una volta si è ammalato abbastanza seriamente ma non voleva che il forno chiudesse: per lui il forno era un servizio alla comunità, oltre che un’attività commerciale. Allora il papà è andato a trovarlo in ospedale per chiedergli come organizzare il lavoro in sua assenza e il nonno si è limitato a dirgli: prendi un pugno di questo, un pugno di quello, un po’ di lievito… D’altra parte è proprio così che funziona: un pugno di questo e un pugno di quello. Non c’è nessuna ricetta segreta, ma solo un’arte che si impara in molti anni di lavoro.

Solo a fine carriera il nonno ha laureato nostro padre “ad honorem” e lo ha riconosciuto fornaio finito. Adesso, oltre a nostro padre, l’unico che conosce i segreti del nonno è Giacomo.

Con il nonno, all’inizio degli anni ’80, ha lavorato anche uno dei primi ghanesi di Nonantola. Una notte Gabriele l’aveva preso su col motorino e allora per accertarsi che stesse bene l’aveva portato a casa. E visto che stavamo cercando un operaio, l’abbiamo assunto in prova. È rimasto con noi quattro anni. Il nonno inizialmente non lo mollava un secondo. Alla fine erano diventati amici. Una battuta continua. Quando il nonno entrava, lui si inchinava e con gesti plateali diceva: “Santo Marino!” Si chiamava Lamin Oatei, era un pastore evangelico.

Non è sempre facile lavorare gomito a gomito con la tua famiglia. Però in certe occasioni, ad esempio a Natale, arriviamo a un livello di sincronia e di empatia quasi perfetti. C’è una fiducia cieca e in quei giorni più che dei fornai sembriamo dei danzatori. Certo è una situazione che mette anche alla prova: a volte partono parole grosse, ma sono cose che passano velocemente, senza lasciare il segno.

Il pane

Il lavoro è cambiato molto in questi anni: all’inizio si facevano grandi quantità di poche qualità diverse. Adesso invece i gusti e le esigenze variano molto e la qualità di pani e prodotti da forno è aumentata in proporzione. Questo ha portato ad aumentare anche le ore di lavoro. Basti pensare che il papà, che potrebbe essere già in pensione, inizia a lavorare alle nove di sera e finisce a mezzogiorno del giorno dopo.

Il valore principale che ha aggiunto il papà al forno è stato il lievito madre. Ha fatto una lunga ricerca, sia sperimentale che teorica, su come ottenere un lievito che partisse dalla formazione lattica, originaria delle nostre zone (a differenza, ad esempio, della Germania, il cui lievito madre è solitamente di formazione alcolica). È stato uno dei primi a recuperare questa pratica che negli anni del boom economico e dell’industrializzazione spinta si era andata perdendo. Lorenza invece ha fatto e continua a fare una ricerca simile sulle farine.

Ogni impasto ha i propri tempi di preparazione, di lievitazione, di cottura. Non si può preparare tutto e aspettare che le cose escano fuori dal forno. Considerando i nostri spazi e la capacità delle nostre macchine, l’incastro dev’essere perfetto se si vuole che il pane esca perfetto. Di notte comincia il papà, poi arriva un operaio, poi mio fratello e infine la mamma, Lorenza e Anita, che si fermano anche al pomeriggio per preparare i dolci. Anche la mamma si spara degli orari mica male…

Facciamo fatica a dire di no, questo è un po’ il nostro problema. Come dicevamo prima abbiamo ereditato dal nonno l’idea che il forno sia un servizio alla comunità. Penso che questo tratto della sua etica professionale dipendesse anche dall’attaccamento alla vita che aveva sviluppato durante la guerra.

All’inizio facevamo metà e metà – Nonantola è un paese piccolo e ci vuole tempo perché le persone accettino il cambiamento – ma sono molti anni ormai che abbiamo deciso di fare solo biologico. Come molte particolarità del forno, anche questa è nata da un’esigenza personale: sia Lorenza che Anita soffrivano di intolleranze dovute probabilmente all’inalazione oltre che all’ingerimento di farine convenzionali. Nella maggior parte delle farine che si trovano in commercio c’è sempre un alto livello di antimuffe e glifosato, un diserbante che viene dato ai campi di grano ma che rimane anche nella farina. Per questo a un certo punto abbiamo deciso di utilizzare solo farine biologiche. Una volta che scopriamo una cosa che fa bene a noi, la vogliamo anche per i nostri clienti. Da qualche anno ad esempio abbiamo iniziato a utilizzare un depuratore a osmosi inversa che toglie tutti i metalli pesanti dall’acqua, che in questo modo risulta molto più leggera.

Uno dei pani più richiesti è la mantovana, una specie di “baffo”. Ma mentre il baffo è fatto dalla macchina, la mantovana è arrotolata a mano. Il più venduto probabilmente è quello ai semi di lino e sesamo a pasta madre, o il filone francese, croccante e morbido, tipo baguette, che dovendo lievitare per molto tempo non si trova facilmente: viene sfornato verso le 10 di mattina e il tempo di vendita è di circa un paio d’ore. Uno dei pani a cui il nonno era più affezionato è la michetta, o rosetta, che riusciva a far gonfiare anche senza additivi.

Ci sono alcune forme di pane che richiamano gli organi sessuali, come il Briccadello o come tutte le forme allungate con il taglio in mezzo, come crostini e bricchi. C’è da pensare che inizialmente siano state date certe forme al pane perché rappresentavano forza, vitalità e fertilità. E poi si pensava che con la croce o con il taglio in mezzo, lievitassero meglio: il sacro e il profano. Anche il forno richiama il ventre materno e forse per questo si diceva “sfornare un figlio” quando le donne partorivano.

La prima e unica volta che abbiamo chiuso il forno al di là dei giorni festivi è stato quando è morto il nonno. Anche i clienti ci hanno ringraziato e hanno apprezzato la scelta di chiudere. Ma nonostante tutto anche quello è stato un giorno di festa. Sono venuti dei giornalisti, ci hanno intervistato e il nonno è riuscito ad essere presente anche nel giorno della sua morte.

I nonni sono morti nel 2016, a quindici giorni di distanza. Adess taca a me, ha detto il nonno subito dopo la morte della nonna. E si è lasciato morire. È stato lucido e organizzato fino alla fine. È morto nel sonno, col sorriso sulla bocca. Ma poche ore prima ci ha chiamato, ci ha salutato tutti, figli e nipoti, ci ha preso da parte e ha fatto un discorso privato a ognuno di noi.

Il nonno è venuto al forno fino a quando aveva 96 anni. Gli ultimi anni aveva un sacco di protesi e per essere qui alle 5, doveva iniziare a prepararsi alle 3. Si doveva ricomporre tutto. Ma una volta entrato al forno diceva sempre: “Senti come mi ringiovanisce questo posto” e iniziava con i suoi numeri da circo: toccava gli impasti, li confrontava, questo va bene, questo no, questo ha bisogno di un po’ più di tempo… Un vero e proprio spettacolo.

Touki Bouki

Articolo scelto dalla redazione.

8 Comments Lascia un commento

  1. È stato un piacere leggere la storia del nostro storico forno ! Bravi ! Grazie per il vostro servizio fatto con passione e tanti sacrifici ….l augurio che possiate anche con Erica continuare il vs. lavoro.❤

  2. Sono sempre stati grandissimi…io partivo da Modena in bici con mio figlio di 1 anno (ora ha 33 anni) per il loro pane bio e ho continuato ad andare da loro, finché ho abitato a Nagazzani. Adesso sono a Crevalcore da 2 anni ma trovo il loro pane in centro presso una drogheria, oppure vado a Nonantola apposta. Grazie per la bella storia, di cui conoscevo solo una piccola parte!

  3. Cara Anna Maria, caro Giacomo e care Ragazze! Che sussulto nel cuore leggere tanta storia, intrisa d’affetto, passione, amore, che io ho potuto conoscere soltanto in minima parte!
    Che gioia rivedervi, anche soltanto in foto!
    Quale gratitudine per quel retrobottega talmente speciale da dar vita ad un ‘pane’ che avrebbe nutrito tanti bambini, tante famiglie…quel ‘pane magico’ che a quel tempo ho condiviso, di cui ancora mi nutro.
    Con affetto, maestra Nicoletta

    • Marino era unico ed era molto bravo ad insegnare. Io che ho lavorato con lui lo posso affermare. Una splendida persona che ricordo con affetto

  4. Una persona speciale. Ho lavorato alcuni anni nel forno con lui ed era molto bravo ad insegnare. Lo ricordo con affetto.

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