La mia casa natale si trova in una piccola città del Burkina Faso, Nouaregou, vicino a Garango. Noi siamo abituati a costruire tante case vicine l’una all’altra, non isolate come in Italia. La mia casa è formata da cinque case vicine, ognuna grande come la Scuola Frisoun. Nella nostra casa abitavamo mia madre in una camera e noi figli in un’altra. Adesso non viviamo più con lei, a parte una delle mie sorelle e mio fratello minore che è ancora piccolo e va a scuola. Quando vivevo con lui lo aiutavo perché non volevo che la maestra lo sgridasse per non aver fatto i compiti: adesso mi ha detto che vuole lasciare la scuola, ma io gli ho consigliato di non farlo.
Io ho finito il liceo nel 2019, senza prendere il diploma perché il secondo giorno dell’esame, mentre ero a mangiare con degli amici, ho perso il documento che mi consentiva l’accesso alle aule, quindi non ho potuto sostenere le ultime prove. È finita così la mia esperienza scolastica: poco dopo me ne sono andato di casa.
Dopo aver lasciato Nouaregou sono andato a Ouagadougou, la capitale del Burkina, e sono rimasto là quattro mesi. Volevo cercare un lavoro e mi sono appoggiato a mio cugino che abitava lì da tempo; vendevamo tanti articoli che venivano dall’Italia: vestiti, pasta, pezzi di macchine, monopattini… Però non era un buon lavoro, perciò ho deciso di andarmene. Nel 2020 mi sono recato a Niamey, in Niger, ho proseguito verso Gao, in Mali, poi mi sono unito a un gruppo di persone guidato da dei Tuareg. I Tuareg sono una popolazione proveniente dal Sahara, vivono in Niger, in Mali e sulla strada che porta in Libia, e indossano un turbante che permette di intravedere solo i loro occhi.
Nel gruppo guidato dai Tuareg eravamo dieci uomini e due donne: ci hanno portati nel Sahara, a Kidal. Da lì abbiamo camminato altri cinque giorni per entrare in Algeria, con acqua e cibo da tenere nello zaino. È stata molto dura. In Algeria abbiamo incontrato tante persone che avevano camminato a lungo nel Sahara, e nel deserto abbiamo visto due persone senza vita, immagino non avessero avuto sufficienti scorte acqua… Noi invece siamo arrivati tutti in Algeria, nella città di Bordj Badji Mokhtar, dove per quattro mesi ho lavorato come assistente muratore. Lì non ci sono algerini o europei, ci sono solo africani e Tuareg. I Tuareg creano molti problemi agli africani: li sequestrano, rubano loro i telefoni, i soldi… Succede ogni giorno che tanti africani muoiano in quella città, per questo, appena sono riuscito a guadagnare un po’ di soldi, ho ripreso il viaggio: ho fatto tappa a Reggane, ad Adrar, ad Al-Mani’a e poi ad Algeri. Mi sono fermato lì e ho lavorato sei mesi ad Algeri.
Quando ho lasciato il Burkina Faso ero senza meta, ma con un desiderio in testa: avere una vita migliore. Poteva essere in Algeria, in Tunisia o in Marocco, non aveva importanza. Non avevo idea che sarei poi venuto in Europa. Mentre ero ad Algeri ho saputo che mio fratello era riuscito a entrare in Spagna, allora mi sono detto: “Perché non provarci?”. E nel febbraio del 2021 sono partito per il Marocco, a piedi. Il percorso è ancora più pericoloso di quello nel deserto, perché si passa per le montagne: se cadi sei finito. Da Algeri mi sono diretto a Maghnia, città di frontiera, e per sei giorni ho attraversato la foresta fino a Oujda, la prima grande città del Marocco. Ero insieme ad altre trentadue persone e molte erano donne: venivamo dal Burkina Faso, dal Sudan, dal Senegal, dalla Guinea, dal Mali… A Oujda lo Stato ha costruito una grande barriera, ma noi siamo riusciti a entrare superando un varco. In città abbiamo incontrato delle persone della Guinea che ci hanno proposto di ospitarci nella loro casa e di accompagnarci l’indomani alla stazione dei treni. Quando siamo entrati in casa, però, abbiamo visto tante persone senza niente da mangiare… ci avevano fregati. Ci hanno tenuti chiusi lì per ottenere da noi dei soldi. Un giorno, mentre erano fuori casa, io e altri ragazzi siamo riusciti a scappare. Per vendicarci abbiamo portato con noi il loro cane e lo abbiamo lasciato a una persona marocchina. Poi siamo corsi verso la stazione dei pullman di Oujda, alla volta di Nador.
Nador si trova vicino a Melilla, una città autonoma della Spagna: è lì che noi africani andiamo per superare il muro ed entrare in Europa. Per circa nove mesi, ogni notte, mi avvicinavo, ma essendoci troppa polizia, tornavo indietro. Lì la polizia è molto intelligente, ma noi lo siamo di più. Abbiamo creato un grande gruppo di circa 1300 persone senegalesi, maliane, burkinabé, ivoriane, camerunesi. Vivevamo insieme nella foresta per oltrepassare la frontiera di notte. Formavamo una sorta di città, guidata da una persona, il “presidente” che, con l’aiuto di “ministri” e “deputati”, faceva mantenere il silenzio e sorvegliava tutti. Io ero un “ufficiale di polizia”: avevo il compito di controllare che le persone non facessero confusione. A parte il presidente, nessuno aveva con sé il telefono, perché c’era il rischio che qualcuno chiamasse la polizia e facesse affari sulla pelle degli altri. Quando la polizia marocchina ha visto così tante persone ha lasciato la frontiera: solo la polizia spagnola poteva fare qualcosa, perché aveva i gas e gli elicotteri. Ogni giorno gli spagnoli mandavano droni su di noi per vedere cosa facevamo, poi, la notte, ci avvicinavamo.
La polizia era molta più numerosa di noi, perciò era davvero difficile spostarsi. Un giorno sono uscito per andare in centro città, ma mi hanno visto, mi hanno arrestato e messo in prigione. Nel 2022 sono stato in prigione due volte: la prima per un mese, la seconda per 21 giorni. Mi avevano portato a Chichaoua, una piccola città del Marocco distante 20 giorni da Nador. Io volevo tornare dai miei compagni perché sapevo che se non avessi fatto presto sarebbero andati tutti in Spagna. Il giorno in cui mi hanno liberato sono andato a Marrakech e ho chiamato subito un mio amico che si trovava nella foresta. Lui mi ha consigliato di rimanere lì e lavorare, perché da loro era un periodo particolarmente pericoloso: le forze di polizia erano aumentate e, di conseguenza, gli arresti. Una notte però settecento persone circa sono uscite dalla foresta senza farsi vedere e sono arrivate vicino a Melilla. Il presidente ha detto: “Soldati, siete pronti? Lasciamoci dietro il Marocco, entriamo a Melilla!” e hanno cominciato a correre. Appena la polizia marocchina le ha viste, ha sparato i gas: metà del gruppo è indietreggiata ed è tornata in Marocco, l’altra metà invece è riuscita a raggiungere la Spagna, per essere poi rimpatriata. Nel frattempo, io ero rimasto a Marrakech, dove ho vissuto fino al 2023. Ho lavorato come parcheggiatore mentre cercavo un altro modo per andare via: pensavo di lasciare il Marocco e, dal mare, raggiungere Las Palmas, in Spagna. Ma non ci sono riuscito.
In quel momento ho capito che, se avessi continuato a fare il parcheggiatore, non avrei potuto aiutare molto la mia famiglia: che fare? Ho visto tante persone e tanti amici andare in Tunisia, così mi sono deciso a fare lo stesso. Sono andato Casablanca e ho preso il treno per Oujda, ma non potevo uscire dal Paese senza la protezione dei poliziotti marocchini, allora sono andato a dirgli che volevo entrare in Algeria. Sono stati proprio i poliziotti ad aiutarmi portandomi di notte vicino alla frontiera: se vuoi entrare in Marocco ti ostacolano, ma se vuoi uscire, ti aiutano. Mi hanno scaricato lì, sono scappati e io mi sono addentrato nella foresta. Per non farmi vedere dalla polizia algerina ho corso per un giorno e una notte, fino a Maghnia. Il giorno seguente ho preso un treno per Algeri, poi mi sono diretto a Tebessa, una città algerina vicina alla Tunisia, dove ho trovato un passeur tunisino che ho pagato molto per farmi fare il viaggio. Ero in un gruppo di settantasette persone, tra cui tantissime donne e ragazze. Ci fermavamo quando la polizia era vicina, riprendevamo il viaggio quando se n’era andata. A un certo punto però mi sono accorto che il passeur non conosceva bene la strada. Mi sono arrabbiato e ho detto a tutti: “Ci penso io”. Più o meno sapevo la strada per arrivare a Kasserine, la città verso cui eravamo diretti, perché prima di partire l’avevo cercata su internet. Ho guidato il gruppo e siamo entrati in Tunisia a piedi, attraverso la foresta: uomini, donne, vecchi, bambini, soprattutto del Burkina Faso e della Costa d’Avorio. Il passeur tunisino è venuto con noi, ma non sapeva nemmeno dove portarci a prendere il pullman per raggiungere Sfax: ha preso i soldi di tutti ed è scappato via.
A Kasserine ci è stato detto che ai neri era proibito prendere treni e pullman per andare a Sfax. Ma io non potevo rimanere lì: i tunisini venivano nel cortile dove stavamo e ci rubavano telefoni e soldi. Non avevo scelta. Allora ho preso due compagni e li ho convinti a camminare quei 200 chilometri che ci separavano da Sfax: siamo partiti alle quattro del pomeriggio. La notte ha piovuto molto, ma abbiamo continuato a camminare completamente bagnati fino a una città in cui dei tunisini molto gentili ci hanno dato soldi, cibo e un posto in cui dormire. L’indomani siamo ripartiti. Dopo due giorni di cammino, abbiamo chiesto aiuto a un ragazzo che conoscevo e che era già stato in Tunisia: lui ci ha trovato un passaggio per gli ultimi 50 chilometri e in due ore siamo arrivati a Sfax.
Ho vissuto in Tunisia solo un paio di mesi, ma ho visto com’è Sfax e come sono i posti da cui sono passato per arrivarci. Ho notato che ci sono molti neri in Tunisia, e la situazione tra noi e i tunisini è molto difficile. Loro cercano di dare una bella impressione del paese, ma noi lì non possiamo fare niente, c’è troppo razzismo. Non ci affittano le case, i negozianti si rifiutano perfino di venderci il cibo. Se per strada passi vicino a una donna ti chiama maiale, asino o peggio. Quando ci vedono, ci sputano addosso. Per due mesi sono rimasto a Sfax, aspettando che l’acqua del mare fosse calma, e non andavo mai in giro per non avere problemi con i tunisini: preferivo stare a casa tranquillo a non fare niente. Poi mio fratello, dalla Spagna, ha chiamato un passeur ivoriano che ho pagato 550€ per il viaggio, e così, a metà giugno del 2023, sono partito. Sulla barca eravamo quarantacinque africani: la maggior parte uomini, cinque donne e tre bambini. Ci sono tanti passeur che fanno i furbi e mettono i tunisini sulle barche degli africani dicendo che conoscono la strada, ma non è così: vogliono solo venire in Europa. Lasciano il loro paese perché non c’è lavoro e poi perché nelle grandi città ci sono tanti problemi. Non posso dire di conoscere bene la Tunisia, però per quel poco che ho visto e vissuto è molto brutta, ma lo sapevo già prima. Non volevo stare in Tunisia, la mia meta era andare in un altro paese. Non è neanche possibile farsi degli amici tunisini, perché loro pensano male di noi neri. Con i marocchini invece si può, siamo come fratelli. In Marocco ho trovato una casa in affitto e anche se ero senza documenti ho lavorato tranquillamente. In Tunisia invece ho visto un paese molto diverso.
La fotografia che accompagna questo articolo è di Fakhri El Ghezal. L’articolo è parte di un numero speciale di Touki Bouki pubblicato nel dicembre del 2024. 32 pagine di storie di vita, analisi, fotografie, illustrazioni e cartine geografiche interamente dedicate alla Tunisia. Chi volesse riceverne una copia cartacea (fino a esaurimento copie) può farne richiesta, con un piccola donazione, scrivendo a redazione.toukibouki@gmail.com.